THE CATS OF GOKOGU SHRINE (2024), di Kazuhiro Sôda
Continua ancora una volta a seguire il suo decalogo di regole Kazuhiro Sôda, nel suo cinema osservazionale fatto di nessuna preparazione, macchina a mano manovrata rigorosamente da solo e nessuna manipolazione in montaggio. Eppure in questo The cats of Gokogu Shrine, decimo lavoro con il quale, nel pieno della pandemia, il documentarista giapponese porta avanti la sua serie di affreschi senza cartelli né voci fuori campo, Sôda sembra in qualche modo essere disposto a tradire almeno in parte un paio fra i suoi comandamenti, o per lo meno ad adattarli alla contingenza pandemica e alla sua passione per i gatti che, più o meno fugacemente, già non aveva potuto fare a meno di filmare anche in tutti gli altri suoi film. È per questo che il suo non stabilire temi e obiettivi prima dell’inizio del montaggio, ma anche e soprattutto il nessun incontro con i protagonisti del film prima di iniziare le riprese, semplicemente questa volta non sono del tutto possibili, in un documentario girato, come già Inland Sea, a Ushimado piccola cittadina nella prefettura di Okayama nella quale lo stesso Sôda ha deciso ormai da tempo di fermarsi ad abitare. Una piccola comunità di uomini e donne, per lo più anziani e in alcuni casi già apparsi in lavori precedenti del regista – «Una donna americana mi ha detto di avermi visto in un film» –, in agrodolce convivenza con una gigantesca comunità di gatti, rigorosamente randagi – le leggi locali non consentono di portarli in casa e addomesticarli –, che nel loro gioioso affollare il Tempio Gokogu in cima alla città ne fanno un’attrazione turistica per tutto il Giappone, ma soprattutto una tematica, quella del rapporto fra gli uomini e i felini, tanto centrale nella vita e nella quotidianità del piccolo paese da non potere che essere stato già prima delle riprese il punto attorno al quale Sôda già sapeva che avrebbe finito per girare tutto il film. Gatti che chiunque viva nei paraggi non può che conoscere e avere già più volte incontrato, per lo meno per il tempo di una carezza, di un sorriso da lontano, di un sorso di latte lasciato in una scodella, di un pesce rubato direttamente dalla lenza o più facilmente regalato dal pescatore divertito dai continui tentativi dell’animale. O, al contrario, per il tempo di un’assemblea cittadina in cui interrogarsi ancora su come gestire la coabitazione con i troppi felini, fra chi vorrebbe solo controllarne la riproduzione per evitare il sovrappopolamento ma mantenerne un buon numero e chi invece sposa il più drastico progetto di portare naturalmente a esaurimento i gatti e i rischi igienici da loro derivati estendendo a tutti loro la campagna annuale di sterilizzazione. Fra chi li ama e trova nella loro compagnia un antidoto alle sofferenze della vita e chi invece li detesta e non vede l’ora di liberarsene, fra chi se ne prende cura nutrendoli e pulendo le loro numerose deiezioni e chi invece conquista ma poi magari tradisce la loro fiducia. Fra i giochi degli animali con l’antivento del microfono e i volontari che li curano quando si feriscono, fra le gabbiette con cui portarli dal veterinario e la tenerezza del micio rosso da lasciare entrare in barba alle regole della casa per trovare riparo dall’uragano, fra la selezione degli animali da portare a sterilizzare e il piccolo taglio sull’orecchio come segno di riconoscimento immediato di quelli già operati. Ma soprattutto fra la vita e la morte dei protagonisti – umani e felini – di una realtà oramai effimera, in via d’estinzione, in cui dopo questa generazione di gatti, per decisione e per intervento degli uomini, non ce ne sarà un’altra pronta a subentrare. Dopo la loro morte sarà tutto finito, a meno che la vita non trionfi con qualche mano anonima che nottetempo verrà a lasciare qualche nuovo gattino appena svezzato, e pronto a vivere una nuova intera esistenza.
Basterebbe il momento commovente in cui Kazuhiro Sôda, rigorosamente senza interrompere le riprese, sente il dovere di prendere parte alla veglia funebre e alla sepoltura di uno dei suoi gatti preferiti prendendo e piantando personalmente un bastoncino di incenso sulla terra dell’improvvisato sepolcro, per riassumere il suo animo gentile, la sua inattaccabile etica e l’umanità strabordante da cui parte il suo sguardo, il suo totale azzeramento di ogni distanza partecipando attivamente, in soggettiva, ai lacerti di vita e di morte che incrocia lungo i sentieri del suo cinema. La stessa adesione personale e profonda con la quale si lascia intervistare sul suo mestiere di documentarista – «Ho avuto la grande fortuna di trasformare in lavoro quello che mi piace fare» – o più semplicemente risponde alle domande dei bambini che sciamano verso scuola incuriositi dalla sua attrezzatura, o ancora si confronta con un’insospettabile attempata fotoamatrice che dice di non essere esperta e che invece conosce alla perfezione ogni possibile marca e modello di fotocamera analogica e digitale. Così come basterebbe, tecnicamente opposto eppure concettualmente identico nell’avvicinare anche ciò che è necessario inquadrare da lontano, il suo utilizzo del teleobiettivo, altro parziale e necessario tradimento di un decalogo che prevederebbe sempre e comunque campi lunghi il più vicini possibile alla visione umana, per poter seguire senza disturbare la dolcissima e naturale poesia di una madre – gatta – che prima sa essere più furba dei pescatori, poi litiga furiosamente con gli altri felini per accaparrarsi un pesce, e infine senza nemmeno assaggiarlo lo porta ai suoi piccoli che, timidi o esuberanti, simpatici o impauriti, devono crescere. Istanti, fra gli altri, di pura meraviglia felina, di istinto naturale, di eleganza, di tenerezza, che quasi da soli potrebbero fare un film. Come quando i gatti giocano con gli oggetti più impensabili, come quando si riparano dal sole e dalla pioggia sotto le traverse delle porte torii del tempio, o ancora come quando sembrano guardarsi con aria di sfida lungo la scalinata, ma tutti e due sono troppo fifoni per attaccarsi. O come quando, nella loro convivenza con gli esseri umani, è proprio qualche bambino a liberare un gattino dalle foglie di una pianta rampicante appiccicate ovunque sul suo pelo, o al contrario è qualche anziano che magari ancora ricorda come fosse ieri la guerra e la doppia esplosione nucleare a portare i croccantini e a occuparsi, per pura passione, dei giardini del Tempio. Un rapporto ora idilliaco e ora conflittuale che The cats of Gokogu Shrine, presentato come d’abitudine da Sôda nel Forum della Berlinale, questa volta la numero 74, racconta fra le giovani volontarie che si prendono cura dei mici e le vere e proprie sessioni di strategia per procedere alla cattura degli esemplari che mancano alla progressiva sterilizzazione dell’intera colonia, fra i vecchi pescatori ormai impigriti che scelgono il punto da cui lanciare con la canna in base alla vicinanza estrema del parcheggio per l’auto e i bambini che giocano a carta-sasso-forbice, fra la pulizia del tempio prima delle funzioni shintoiste e il fortissimo senso di comunità che si sviluppa nel mangiare tutti insieme attorno a un tavolo, fra gli istanti idilliaci di una lumaca che riemerge da qualche parte dopo la pioggia e quelli wisemaniani del consiglio comunale in cui deliberare il da farsi «per la cacca» dei felini. Ma soprattutto fra le abitudini e le piccole cerimoniosità di un’umanità perfettamente consapevole del poco tempo che, esattamente come ai gatti, le rimane da vivere, e che forse proprio per questo cerca di aggrapparsi fino all’ultimo istante alla vita e alla sua bellezza. Partecipando attivamente e in prima persona agli spazi comuni, o più semplicemente riempiendo il proprio tempo fra una sessione di pesca e l’intrinseca lirica di una passeggiata fra i ciliegi in fiore, ricordando e raccontando il passato, e assaporando fino in fondo la sorpresa quotidiana della provvisorietà. Come se l’esistenza stessa, sporgendosi sul ciglio del suo esaurimento, non potesse che in qualche modo amplificarsi nel sublime poetico della sua malinconia, e proprio da lì tornare emozione pura ed entusiasta come quella dei bambini, o forse come quella di un gattino appena nato, che con uno sguardo del tutto simile a quello cristallino di Kazuhiro Sôda scopre per la prima volta il mondo.
Marco Romagna