«Su di noi avevano fatto un film. Il film era tratto da un libro scritto da una persona che conoscevamo. Il libro era il semplice racconto di quattro settimane trascorse nella città in cui siamo cresciuti e in linea di massima era un ritratto fedele. Venne catalogato come romanzo, ma solo pochi dettagli avevano subito modifiche e i nostri nomi erano quelli veri e non conteneva nulla che non fosse accaduto veramente…»
Bret Easton Ellis, incipit di Imperial Bedrooms (2010)
Lo scrivere ora di un film di Schrader (proprio ora, dopo la morte di Jonathan Demme, colui che umanamente nelle ultime opere ha bypassato l’idea stessa della rappresentazione – v. A master builder, 2013) è come affrontare una sintesi completa della destrutturazione, non solo filmica, della Hollywood negli anni ’10 del ventunesimo secolo. Laddove pilastri come Cronenberg e Ferrara hanno portato alle estreme conseguenze la narrazione di un potere fisico dell’immaginario, Schrader si muove tra le rovine e le carcasse del cinema (e non dei film, attenzione) come momento diegetico rispetto al reale di una società post-ideologica. Sono le stesse impalcature a crollare, prima di tutto, come se lo spazio destinato all’interazione tra la messinscena e lo spettatore fosse negato, o meglio come se lo spettacolo fosse tutto attorno a noi e non avesse più bisogno di un’indiscriminante limitazione di luogo che ne ridurrebbe l’espressione. Proprio per questo l’atteggiamento di Schrader sul reale assume uno sguardo pornografico, nel senso etimologico del termine (dal greco: “πόρνη” ovvero “meretrice” e dal verbo “πέρνημι” ovvero “io vendo”, di origine indoeuropea), e ha il senso di un baratto sofisticato e corrotto nei confronti dell’immagine, oggi come non mai meretrice, e dei sensi esterni che la sua eccedenza espressiva implica nel nostro quotidiano. Proprio in questo senso The Canyons non può non essere considerato opera di sintesi (prendendo hegelianamente Hardcore come tesi, ed in un certo senso Auto Focus come antitesi) di uno sguardo e della sua proliferazione di superficie che nel continuo galleggiare delinea un immaginario apocalittico dell’immagine stessa.
È molto curioso come uno dei massimi teorici dei non-luoghi, l’etnologo e antropologo Marc Augé, in un’intervista del 2008 a La Stampa ponga il cinema come luogo impenetrabile del sogno, spazio di protezione e allo stesso tempo momento della doppia proiezione (quella del film e della nostra mente). Cinque anni dopo Schrader apre The Canyons con lo smantellamento del luogo-cinema con un’astratta furia iconoclasta proprio sui titoli di testa. Sale cinematografiche di Los Angeles, dal centro alla periferia, chiuse, trascurate, distrutte in una mappatura agghiacciante che segna indistricabilmente una metafora sulla frattura dei tempi, ovvero mostrando che l’immagine non possiamo più cercarla lì, nel luogo platonico per eccellenza, nello spazio dove la riproducibilità di quell’immagine è nata. In fondo è come se il film fosse finito prima di incominciare. Quello che segue ne è direttamente la seconda parte, una lunghissima dissertazione simbolica su come ora guardiamo, perché oggi più che mai non può più essere urgenza il che cosa abbiamo di fronte agli occhi. Non a caso la scrittura è affidata ad un altro personaggio legato indissolubilmente al mondo “posteriore”, quel Bret Easton Ellis che qui disegna dialoghi stranianti e superficiali per personaggi sempre più artificiali, che camminano su un crinale scosceso e finto ma pienamente iperrealista. Le maschere sono stratificate e incapsulate, la finzione esasperata e alterata, le immagini riflesse e continuamente sdoppiate. La trama dovrebbe avere come principale protagonista una L.A. culla di un cinema che convoglia le ossessioni e le ambizioni della città californiana. Ci sarebbe infatti un film di mezzo, o probabilmente solo la sua ossatura così fragile che ne lascia intuire solo la mancanza. All’interno di questi contenitori stratificati, sono protagonisti della vicenda dei ragazzi astenici in preda ad eventi che non sanno controllare. Cosa porterà ad inganni, paranoia, crudeltà psicologica e violenza? Proprio su questa superficie, James Deen (nella realtà attore porno) e Lindsay Lohan si muovono come splendide figurine attraversate da un vuoto assoluto, maschere bellissime e amorfe non più in grado di provare alcun sentimento, burattini vacui che vivono unicamente attraverso la propria ombra tentando di comunicare lingue perdute. Nulla rimane del noir sensuale, come nulla dello pseudo horror psicologico, perché nulla esiste all’interno dello schermo, laddove il crollo del cinema non è nient’altro che l’eco e lo spettro di una crisi definitiva della coscienza ontologica umana e dunque della sua rappresentazione (in fondo perché crollerebbe una sala? Chi dovrebbe curarla?). È come se una luce di taglio illuminasse improvvisamente un buco nero e venisse da esso risucchiata, facendo emergere però lo stesso senso religioso (calvinista, come ci insegna/ci ricorda anche Hardcore) della perdizione e della redenzione possibile solo attraverso il vuoto di un’abnegazione, e dunque desolazione, quasi atea o quantomeno agnostica.
Non c’é bisogno di nessuna rivelazione perché il luogo-cinema viene sostituito dallo spazio-città, ed in questo nessun altro posto potrebbe essere più convenzionale e adatto di Los Angeles (e Hardcore appunto è proprio lì a dimostrarcelo), spazio squisitamente filmico in cui qualsiasi cosa diventa commercia(bi)le, attraverso l’animo e i corpi e le anime dei protagonisti (quasi rigurgitati dal processo di astrazione di essi stessi in Auto Focus); come se la stessa immagine ne fosse vittima, o quantomeno non consapevole. Bloccati in un parlarsi addosso sfiancante e cadaverico, frivolo e allo stesso tempo claustrofobico, come nei ragionamenti sul desiderio e sul trauma infantile ripetuti fino alla nausea in Cortesie per gli ospiti, i personaggi di The Canyons si rifugiano in un erotismo aperto e libero ma che rifiutano, scappando, a differenza che nella disperazione fantasmatica del film-gemello Maps to the Stars (2014), nella psicanalisi e negli specchi nascosti dei suoi luoghi, che ci mostrano i fantasmi della quarta parete ormai infranta, privata di un significato, le macchine da presa nascoste nell’infinità del ripetersi dello spazio filmico. I corpi plastici esistono attraverso gli schermi (del cellulare), le anime esistono attraverso gli sguardi, l’inespressività mostruosa e oscena si mischia con la superficialità di un mondo-cinema privato del cinema. Il noir, o il fantasma ignavo di esso, nasce e muore nella camera da letto, sotto le luci colorate che illuminano un amplesso a quattro in cui tutto si confonde, la donna possiede l’uomo, l’uomo possiede l’uomo, e in tutto ciò non regna il piacere, non regna il bello, vi è solo la parvenza esangue di un’immagine sessuale drammatica e chiusa in se stessa. Il finale disperato di un giallo erotico in cui gli attori recitano nella loro vita personale/reale non può che concludersi dunque in questo ostentarsi del vuoto, senza redenzione se non con il tentativo disperato di uno sguardo in macchina volutamente patetico. E qui, in Schrader, è la forma a vivere attraverso la morte degli umori, non il contenuto, non è il sottofondo dell’immagine ad ardere come la capanna di Affliction (1997), non sono le pareti del palco a collassare come in Mishima (1985), la bruciatura e il collasso sono implicati nel finto, nell’artificiale, nel fasullo, nel sintetico.
Nel suo più celebre romanzo, American Psycho (1991), Ellis dice «la realtà è un mostro troppo orrendo» e dunque oggi perché il cinema non dovrebbe esserlo? Schrader lavora sul mezzo immagine come strumento, supporto, veicolo e apparato impostandone una sintassi linguistica che continuamente si riferisce a un altro schermo (televisione, computer, tablet, cellulare e anche il cinema almeno evocato), schermo che si pone come materialista e allo stesso tempo trascendentale, vivendo unicamente nell’atto della ripetizione di una propria sorgente. La codifica dell’impossibilità binaria di uno scarto digitale crea la perversione di questo doppio gioco che sacrifica corpi e anime a un’immagine oramai senza luogo. Quindi, qual è il significante e quale il significato? La sintesi (della sintesi) definitiva di questo massacro tragicomico e deviato può esser cercato nel cortometraggio senza titolo di Schrader per Venezia 70 – Future Reloaded. Ora è Schrader stesso a essere in scena e a farsi mezzo della rappresentazione, camminando per pochi minuti in città, indossando un corpetto pieno di minuscole camere digitali dagli obbiettivi divergenti e dai punti di vista potenzialmente infiniti. Non resta che specchiarci, riprenderci, (auto)osservarci. Il luogo-cinema è diventato un pan-luogo indefinito in cui qualsiasi persona(ggio) ha teorica libertà di scelta e azione ma altresì condizionata profondamente dalla propria rappresentazione. Altra tesi, altra antitesi e altra sintesi, in un cortocircuito. Ecco che torna la pornografia più estrema, venduta come quotidiana esposizione all’immagine, ma mai così vicina al vuoto, all’oblìo, al nulla. Ed ecco il disastro, ed ecco il baratro, ed ecco il cinema. Il cinema.
Erik Negro