THE CAINE MUTINY COURT-MARTIAL (2023), di William Friedkin
«Nei miei film ho sempre cercato di esplorare il confine fra il bene e il male, e anche dentro di noi». Come a dire che nel mondo non esistono il bianco e il nero, ma solo ambigui toni di grigio e chiaroscuri, e che non si può prescindere dal problematizzare la realtà, dal continuare costantemente a interrogarsi pure quando perfettamente consci di non poter pretendere la certezza assoluta di una risposta. È lo stesso William Friedkin a fornire, tramite l’esplicito cartello in apertura di The Caine Mutiny Court-Martial, la principale chiave di lettura di tutto il suo cinema e del magnifico testamento artistico con cui a ottantasette anni ha deciso di chiudere la sua carriera. Un film, presentato postumo fuori concorso a Venezia neanche un mese dopo la morte del suo autore, lungamente progettato e poi girato in tutta fretta in poche settimane, con l’amico Guillermo Del Toro sempre al suo fianco e pronto a subentrare qualora Friedkin non avesse fatto in tempo a finirlo, con cui riadattare alla piena contemporaneità la pièce che lo stesso Herman Wouk aveva tratto nel 1953 dalla parte centrale del suo romanzo The Caine Mutiny con cui due anni prima aveva vinto il premio Pulitzer. Un testo letterario che già nel ’54 Edward Dmytryk avrebbe portato sullo schermo cinematografico, nell’unica versione comprensiva delle parti sulla nave e dopo il processo che non fanno invece parte della variante teatrale Court-Martial, affidando il ruolo del paranoico capitano Queeg a un clamoroso Humphrey Bogart, e che nell’88 Robert Altman avrebbe portato in televisione non più traendolo direttamente dal romanzo ma spostando dal palcoscenico al set l’adattamento già messo in scena a Broadway della sola parte processuale, a sua volta già dal ’55 più volte filmata per il piccolo schermo compresa una versione Rai del ’61 affidata alla regia di Giacomo Vaccari e interpretata, fra gli altri, da Gastone Moschin e Arnoldo Foà. Per una storia dalle (quasi) perfette unità aristoteliche – solo l’ultimissima scena che ribalta nuovamente il senso del vero e del falso sarà ambientata la sera e in un luogo diverso dall’aula di tribunale in cui si svolge “in diretta” il dibattimento – nella quale cambiare magari date e riferimenti (la Seconda Guerra Mondiale che diventa il 2022 in cui sminare le acque del Golfo Persico, il Vietnam citato in Altman che nella versione di Friedkin diventa l’11 settembre, ma anche l’avvocato d’accusa donna o il giudice a capo della corte interpretato dal nero Lance Reddick solo poche settimane prima di morire all’improvviso) e in cui trovare una chiave registica personale (si pensi al lungo pianosequenza di Dmytryk sulla perdita di controllo di fronte alla Corte del comandante, che qui diventa un serrato campo-controcampo con ottiche sempre più lunghe e diaframmi sempre più aperti a togliere progressivamente aria al nervosismo del teste), ma che ogni volta si ripresenta intatta nel ritmo teso e incalzante della sua sceneggiatura, e nella profondità universale e immutabile del suo discorso sulle possibili sfaccettature della verità. Da qualche parte fra l’ammutinamento e l’atto eroico con cui salvare un’imbarcazione dall’affondamento e dal momento di scarsa lucidità del suo comandante, fra la responsabilità di una decisione necessaria e la cospirazione per (far) umiliare ed esautorare un nemico, fra l’innocenza del primo ufficiale accusato e la colpevolezza del comandante che ha deciso di rimuovere e sostituire per fronteggiare al meglio l’emergenza di un tifone, o forse di un qualche glaciale manipolatore iper-egoista che avrebbe meritato al suo posto di stare alla sbarra.
Basta una manciata di testimoni fra ufficiali, psichiatri, marinai semplici, il comandante e l’imputato da interrogare e controinterrogare, a The Caine Mutiny Court-Martial. Un percorso dialettico di domande, risposte, (in)coerenze e brevi sospensioni che, da quella che sembra inizialmente una palese colpevolezza dell’imputato Stephen Maryk, con l’emergere di tutti gli elementi in suo sfavore, andrà progressivamente ad accumulare piccoli dettagli con cui la difesa potrà ribaltare le apparenze, e dimostrare alla corte con l’evidenza dell’esperienza diretta l’effettiva incapacità psichica di reggere la pressione del comandante, e di conseguenza la piena legittimità (e anzi necessità per salvare la nave e l’equipaggio) delle valutazioni e dell’insubordinazione del suo Primo Ufficiale. Eppure, in un film evidentemente di sceneggiatura, sorta di neo-Testimone d’accusa fatto di dialoghi fittissimi sulle cui minuzie dipanare l’unica possibile strategia difensiva atta a smascherare e distruggere probabilmente ben oltre le sue effettive colpe e difficoltà psichiatriche un rispettato ufficiale di Marina con oltre vent’anni di servizio e una reputazione immacolata, è proprio nelle scelte di messa in scena e di montaggio che emerge la mano di Friedkin. Con la già citata progressione visiva verso una claustrofobia che dai grandangoli ai teleobiettivi progressivamente accorcia fino a eliminare la profondità di campo, con la centralità assoluta dei volti e delle loro minime variazioni, con la minuziosa direzione degli attori (semplicemente straordinario Kiefer Sutherland nel ruolo di Queeg, ma anche Jason Clarke che dopo aver sostenuto l’accusa contro Oppenheimer è ancora in un tribunale questa volta come avvocato difensore), con la fissità delle inquadrature che alimenta e scarica la tensione improvvisa in leggeri carrellate laterali, e con i necessari scavalcamenti di campo, o per lo meno i necessari spostamenti del punto di vista, ad accompagnare l’emergere a poco a poco della verità, o forse sarebbe meglio dire la costruzione di una verità processuale, che non è necessariamente coincidente con la realtà di ciò che è davvero accaduto, ma che solo una sonora ubriacatura e un bicchiere di champagne sdegnosamente lanciato sulla faccia del vero colpevole potranno – ormai fuori dall’aula – ribaltare per un’ultima volta in una lettura dei fatti completa e senza più omissioni. Del resto dice più volte come non avrebbe mai e poi mai voluto accettare il caso, il tenente Greenwald di Jason Clarke, avvocato d’ufficio di fatto obbligato ad accollarsi un incarico spinoso e ingrato, moralmente discutibile, in cui la salvezza del suo cliente sarebbe necessariamente dipesa dalla cinica messa alla gogna di un altro uomo da trasformare, da parte lesa e testimone, in vero e proprio nuovo imputato al quale fare evidentemente perdere il controllo, da portare fino al punto di ebollizione del suo senso di inadeguatezza da sempre scaricato sui sottoposti, fino all’apice della sua paranoia, fino alla sua permalosità narcisistica e alle sue ossessioni più radicate e anormali. Facendo impietosamente emergere la sua personalità disturbata, le sue negligenze e codardie passate, i suoi vizi, le sue ingiuste pretese, le sue manie, le sue ansie da prestazione, la sua violenza nell’imporre precisione e nel punire tutto l’equipaggio per una chiave che non esiste, per una fragola sparita o ancora per una camicia rimasta leggermente fuori dai pantaloni, e poi ancora la sua continua ricerca di un colpevole con cui coprire i propri errori, le sue macchie gialle nel mare con cui lasciare ad altri i compiti più pericolosi. Fra domande sempre più precise e scomode, conclusioni pianificate partendo da lontano per poi mettere insieme di fronte alla Corte Marziale i pezzi del puzzle, e pressioni psicologiche sempre più forti a ogni contraddizione e menzogna dell’avversario con cui mandarlo letteralmente fuori di testa, cui cui distruggergli consapevolmente la carriera e la vita per salvarne un’altra. Magari perfettamente consci di essere (stati) a propria volta manovrati e ricattati da un altro grande burattinaio (in)visibile e voltagabbana, che ha intessuto l’intera trama con cui vincere su tutta la linea senza nemmeno il bisogno di sporcarsi le mani, ma anche di non potere fare altro se non vincere e poi dirgli in faccia quello che si pensa di lui. L’ennesimo film bellissimo di una carriera tutta vissuta nell’interstizio ambiguo e irrisolvibile fra il bene e il male, per il quale non può esistere una sola verità possibile. Può esistere solo l’ennesimo esorcismo.
Marco Romagna