IL RAGAZZO E L’AIRONE (2023), di Hayao Miyazaki
Sono passati dieci anni dall’ultimo lungometraggio per il cinema di Hayao Miyazaki, Si alza il vento, un film che sembrava un testamento, ma che non lo era. Era tuttavia la sua opera più realista e rigorosa, una disperata e sottile poesia antibellica che richiama più lo Shōshimin-eiga di Ozu o Mizoguchi che i viaggi fantapolitici dei manga di Osamu Tezuka – un film che sembrava scritto nel cielo (letteralmente) dover essere il testamento di quest’autore, questo bambino che voleva diventare un pilota di aeroplani ma è finito a fare illustrazioni per le prime produzioni Toei diventando passo dopo passo, nell’industria in costante mutamento dell’animazione giapponese, uno dei più celebri registi del cinema tutto nel suo paese. Sicuramente il più riconoscibile vivente, con Takeshi Kitano, più celebre al popolo forse per motivi extrafilmici. Si alza il vento nel suo paese d’origine sarebbe dovuto uscire in concomitanza con La storia della Principessa Splendente, quello sì un film testamentario, ma per l’altro regista/co-fondatore dello Studio Ghibli, Isao Takahata, che nel suo addio alla vita, al cinema, all’animazione, al Giappone, ha infuso un immaginario mitico e spirituale di una potenza tale che ancora un decennio dopo non ci si crede — la Principessa Splendente è senza dubbio uno dei più grandi film d’animazione della Storia.
La pianificata uscita in contemporanea dei due film, non riuscita a causa di ritardi nella produzione del film di Takahata, avrebbe dovuto richiamare un’operazione commerciale analoga adoperata da Ghibli con gran successo nel 1988, quando due film degli stessi due registi (entrambi erano al quarto lungometraggio anime, anche se Takahata era un nome affermato nel settore da più tempo) furono programmati nelle sale per essere proiettati l’uno di fila all’altro: Takahata con Una tomba per le lucciole, ormai il dramma realista d’animazione per antonomasia, e Miyazaki con Il mio vicino Totoro, forse il suo capolavoro, un fantasy lento e riflessivo con un sottotesto commovente di dramma famigliare, in cui l’emblematico mostriciattolo rotondo Totoro, che divenne poi logo dello Studio Ghibli, non è protagonista ma un alleato nell’ombra, che sembra un sogno, uno spirito, una visione. Il film in assoluto più crudo e adulto dello Studio Ghibli, quello di Takahata, veniva dunque contrapposto a un film spudoratamente per bambini, quello di Miyazaki, le cui tematiche mature di lutto, ricerca di un senso della vita, rapporto uomo-natura venivano fatte risaltare proprio dalla messa in relazione tra i due film. I bambini di Una tomba per le lucciole e Totoro lottano per gli stessi valori, in due contesti radicalmente diversi. È stato un momento fondamentale per l’iconografia e l’identità dello Studio Ghibli, nello stesso modo in cui invece il binomio Principessa Splendente/Si alza il vento è stato un momento finale. In questo caso fu il film di Takahata quello per bambini, in teoria, con la sua favola colorata su una bambina che nasce da una canna di bambù, la fiaba di Kaguya (detta anche ‘Taketori monogatari’) che è tra le più popolari della tradizione nipponica; il contraltare proposto da Miyazaki è invece il suo film più autobiografico, che ri-affronta, stavolta di pancia, la morte della madre per tubercolosi (presente anche in Totoro), dal punto di vista di un aspirante pilota che per un difetto alla vista invece si ritrova a disegnare aeroplani, e che deve convivere con la malattia terminale della moglie. La punta della matita, come per Miyazaki stesso, diventa ancora una volta il motore per un volo in un mondo immaginario, un mondo parallelo per esorcizzare il nostro, con la sua guerra, il suo odio, la sua decadenza. Eppure già in Si alza il vento la realtà in cui immergere i personaggi non era più l’utopia fatata e in qualche modo protetta dei vari Nausicaä, Totoro e Mononoke, in cui viene rispecchiato il male del mondo lasciandolo però fuori dalla porta. Era un qualcosa di molto più vicino e ‘reale’, in cui deflagrano improvvise la guerra, la disperazione e la perdita. Come se le parabole dei due grandi autori e fondatori dello Studio Ghibli non potessero in qualche modo che finire per intersecarsi, fino quasi a scambiarli di ruolo.
Il resto è semplicemente l’agrodolce procedere della Storia: Takahata è morto e ha raggiunto Kaguya e il Bodhisattva celeste sulla Luna, mentre Miyazaki è rimasto lì, con troppe idee e con troppa passione per riuscire realmente ad andare in pensione, prima alla ricerca di un punto di equilibrio, poi di un possibile erede, e infine della consapevolezza, al contempo amara e dolcissima, di come lo Studio Ghibli sia (stato) un miracolo unico e irripetibile, un’alchimia impossibile da ritrovare, viene quasi da pensare un momento già finito, o che per lo meno finirà con lui, ultimo depositario di un’utopia che non potrà più esistere. Quando ha cominciato a lavorare nel manga, e poi nell’animazione televisiva, e poi nel cinema, le cose non funzionavano come adesso. L’industria del fumetto e dell’animazione in Giappone è paragonabile a quella del cinema in California per predominanza culturale, ma l’attenzione del mondo occidentale popolare è arrivata progressivamente, col tempo, aumentando o mutando corso col passare degli anni, nascendo con l’aiuto di shonen (serie per ragazzi, solitamente prima serializzate in forma fumetto) come Dragon Ball o Ken il guerriero o magari di film cyberpunk e dintorni di culto come AKIRA, Ghost in the Shell o i primi Ghibli (Nausicäa) che sono stati distribuiti nelle sale americane ed europee. Ma adesso ogni manga con un minimo successo è accompagnato da un adattamento animato ad alto budget, vengono fatti gli adattamenti live-action degli anime di culto (Netflix per esempio ha già rielaborato Death Note, One Piece, a fine anno YuYu Hakusho…), e soprattutto in Giappone i film che hanno maggior successo di botteghino in sala sono sempre anime di franchise (Demon Slayer Mugen Train, Evangelion 3.0+1.0, e One Piece Film Red che è Toei) nello stesso modo in cui in USA lo sono i film Marvel/Disney e DC. Lo Studio Ghibli, orfano di Takahata ma anche di un altro co-fondatore produttore (Yasuyoshi Tokoma), è adesso nelle mani di Miyazaki, dell’ultimo co-fondatore Toshio Suzuki e del presidente dell’associazione Kiyofumi Nakajima; Ghibli è sempre rimasto una realtà unica nel cinema giapponese, e il suo futuro è in bilico anche a causa dei flop che sono stati i film del figlio di Miyazaki, Goro, in particolare l’ultimo Earwig e la strega (2020) in cui per la prima volta nella storia Ghibli vengono usate animazioni in 3D.
Un nuovo film di Miyazaki, insomma, sulla carta sembra anacronistico, fuori tempo massimo, quasi “di troppo”, per quanto in quell’intersezione che c’è tra il mondo degli anime e il mondo del cinema se ne possa sentire la necessità: sarebbe un modo per ‘tornare in quel mondo’. E ne è perfettamente conscio per primo lo stesso Miyazaki, che a ottantadue anni e come si diceva dieci esatti dopo (non) essersi ritirato ‘torna in quel mondo’ appunto, proprio per ragionare sul suo ruolo e su quello dello Studio Ghibli, sulla mancanza irreparabile di Takahata, sull’età che avanza sempre più inesorabile un fotogramma illustrato dopo l’altro, e poi sul passato e sul presente. Del resto già la misteriosa campagna promozionale de Il ragazzo e l’Airone, tra poster ambigui, cambi di titolo (l’originale titolo internazionale sarebbe dovuto essere How do you live?) e l’assenza di una sinossi ufficiale, aveva reso la faccenda del ritorno di Miyazaki presto intrigante… come pure le interviste rilasciate da Miyazaki e Nakajima attorno all’uscita in sala in Giappone del film, da cui si evince che siano già al lavoro su un altro lungometraggio; ci piace credere, nel caso di registi con un immaginario così solido e riconoscibile, che una filmografia sia un unico lungo racconto, diviso in capitoli o variazioni sul tema – appunto, come già detto e come verrà detto anche più in là, tutto un suo mondo, unico, proprio, sensato, con le sue coerenze e incoerenze e i suoi segni universali. Adoperando questo sguardo simbolistico, dopo il finale-limbo fortemente allegorico di Si alza il vento, in cui si aprono le porte del mistero e della vita dopo la morte con la fragile leggerezza di una passeggiata nei campi, Il ragazzo e l’Airone comincia con una rinascita, piombando nell’oscurità nelle fiamme di un incendio. Con un’immagine che, dalla perfezione colorata e tondeggiante di Miyazaki, non a caso progressivamente si sfalda, perde la nitidezza dei suoi contorni, e proprio lì ritrova in qualche modo l’immaterialità di Takahata, la sua messa in scena essenziale, il suo fiume emotivo, la corsa a perdifiato della Principessa Splendente, in una summa stilistica Ghibli che già ci racconta tantissimo e ci ricollega all’oggi — con la tragedia della guerra.
Fiamme astratte e volti cupi che compaiono nella folla come fantasmi in un dipinto di Goya accompagnano il tratto di contorno che circonda il protagonista, un bambino di nome Mahito che corre con urgenza per la città infuocata, che si distorce e si dilata insieme al movimento del punto di vista, del fuoco, della macchina da presa invisibile dell’animazione. Il dinamismo della paranoia della scena spiazza subito lo spettatore – si sente l’impatto di ogni stacco, perché vediamo rappresentato un mondo che si muove e si modifica insieme al personaggio invece del consueto mondo che il personaggio dovrà esplorare. Le musiche di Joe Hisaishi, mai così funebri ed eteree, sono quasi assenti nell’incubo che è il prologo, ed entrano dopo, ad accompagnare Mahito nella vita dopo il trauma, una vita lenta e insoddisfatta che procede mentre, in sottofondo, lontano, la guerra prosegue. Un mondo, dopo Si alza il vento, ancora una volta ‘reale’, per quanto gremito di piccole assurdità: la nuova compagna del padre è pressoché uguale alla madre morta, e un Airone dal sentore paranormale insegue Mahito nel giardino attorno alla loro nuova casa. Mahito fa a botte coi compagni di classe di scuola e tornando a casa si colpisce intenzionalmente in testa con una pietra. Durante la convalescenza, legge il romanzo E voi come vivrete? di Yoshino Genzaburo e piange. È il libro che ha ispirato il film, che tuttavia non ne è un adattamento: un romanzo di formazione che parte dalla premessa del lutto come il film di Miyazaki, ma decide di intraprendere un discorso tramite delle lezioni su come vivere, che il protagonista del romanzo Jun’ichi ascolta dallo zio e poi integra nel capire che strade percorrere nella sua, di vita; ponendo a fine romanzo al lettore la domanda eponima.
Il mondo ‘reale’ di Mahito, poco dopo la lettura del libro, si sgretola come un sogno. Il mistero si infittisce e nel tentare si risolverlo Mahito si trova di fronte a un portale per un vero e proprio altro mondo, che funziona in modo parallelo e distinto rispetto a quello ‘reale’, come nello stabilimento termale degli yokai de La città incantata. La dimensione fantastica attorno a Mahito né si muove attorno a lui né lo opprime, bensì si apre come un libro illustrato e si espande in excursus lisergici, frapponendo allucinazioni e linee temporali. La distinzione tra ‘mondi’ è invero chiave nella narrativa del film, presentato in anteprima italiana alla 18ma Festa del Cinema di Roma un paio di mesi prima dell’uscita in sala già programmata da LuckyRed (affidandone saggiamente l’adattamento a Francesco Nicodemo e non più a Gualtiero Cannarsi) per il prossimo primo gennaio, e riprende le regole di un sottogenere narrativo tipico negli anime detto proprio Isekai, letteralmente ‘altro mondo’, in voga da ben prima che la rivoluzione digitale ci portasse a parlare quotidianamente di ‘multiversi’. Come anche prima accennato, lo Studio Ghibli a sua volta ha creato un mondo riconoscibile, simbolico e interconnesso tra un film e l’altro a prescindere dal regista, che a essere raccontata sia la guerra o l’amore, l’infanzia o la vecchiaia, il mito o la realtà, e non è solo un mondo di temi o di personaggi o di tratti di disegno: è un mondo in cui le cose si muovono in un modo specifico, in cui anche il cibo e il vento sono vivi. È un mondo che ha accompagnato la crescita di molte persone, ed è un mondo per cui Miyazaki ha sudato e sanguinato. È sempre stato un mondo fantastico parallelo al nostro, senza bene e male né sogno e veglia, in cui le inquadrature sono precise e immaginifiche come nel grande cinema classico ma gli elementi in campo sono manifestazioni dell’immateriale (macchinari impossibili o rielaborazioni dei kami scintoisti per esempio), e soprattutto la fisica degli oggetti e la psicologia delle persone assomigliano a quelle della nostra realtà materiale ma sono più fluide, malleabili. È un mondo inquietante e confortante allo stesso tempo, in cui tutto è buffo e dolce anche quando attorno si parla solo di morte e distruzione, in cui tutto è al contempo buono e cattivo, amorevole e atterrente, affidabile e pericoloso. Ma anche anziano e bambino, persona e statuetta, passato e futuro. E al contempo è un mondo intuitivo, in cui non tutto è necessariamente una metafora o un rimando a qualcos’altro: a volte a far procedere e svelare una storia, gli elementi, la fauna e la flora è un qualcosa di mosso solo dalla sensazione, da una comunanza olistica (o fiabesca, o spirituale che dir si voglia) con tutte le altre storie interconnesse.
Ecco, Il ragazzo e l’Airone non solo racconta uno di questi mondi, ma approfondisce cosa vuol dire creare un mondo immaginario, conoscerlo, usare la finzione per raccontare la realtà, mettersi a nudo attraverso un altro mondo e portarci dentro tutti gli altri. E le implicazioni del poterlo creare e disfare.
Questo film doloroso e bellissimo propone una struttura narrativa onirica-poetica con una finta linearità, ma lo fa prendendosi di più i suoi tempi rispetto al solito. La ‘realtà’ di Mahito è fatta di immagini fisse, ed eccetto un paio di interazioni con l’Airone tutto è silente, innocuo. Quando si apre il mondo fantastico, si è ormai quasi a metà film, e l’immaginario si dispiega di fronte agli occhi di Mahito e del pubblico molto velocemente, con un accumulo iperbolico di informazioni visive in costante tumulto.
Inoltre, si sarà capito, il film non sarà autobiografico nel modo in cui lo è Si alza il vento, ma, poiché entra nelle profondità dell’immaginazione (e quindi della paura e del desiderio) di un Io infante, potrebbe essere un racconto intimo di Miyazaki stesso in modo anche più profondo. Le ambizioni personali rispetto alla famiglia, alla vita, al rapporto col mondo tutto: queste sono le cose che si temono e che si anelano. Ma persino il mondo parallelo immaginario, l’utopia colorata in cui regnano gli spiriti e ogni cosa ha un ordine nella ciclicità cosmica, può diventare un’infame distopia fascista – immaginazione e vita reale convivono, si influenzano a vicenda, sono in equilibrio l’uno a causa dell’altro. Ci sarà sempre un’altra guerra, e poi un’altra, come una nuova storia da immaginare. La guerra finirà – e come finirà -, e da quell’orrore nascerà (anche) tutto questo. Miyazaki non ce lo chiede direttamente come il romanzo di Genzaburo, ma anche lui interroga noi nel profondo su cosa desideriamo, su come vogliamo vivere: con (nel) l’immaginazione o con la realtà materiale, entrambe magnifiche e corrotte, o a quale compromesso ci aggrappiamo per continuare a sopportare tutto. Miyazaki si risponde, ci risponde, e per l’ennesima volta sembra dire addio ma anche no: forse il suo è un mondo che in qualche modo resiste, che continua imperterrito a (far) sognare fino all’ultimo istante con il suo tratto inconfondibile, nell’equilibrio tra forsennato realismo e inesauribile immaginario. Fino all’ultimo briciolo di passione, fino all’ultima punta di struggimento, fino all’ultimo sussulto di meraviglia.
Si alza il vento si chiudeva con un comando: «devi vivere». Nonostante tutto, il dolore che ‘hai’ attorno, quello che ‘hai’ subìto e quello che più o meno volente ‘hai’ causato. Questa frase viene detta anche ne Il ragazzo e l’Airone, con implicazioni diverse: non più “nonostante il dolore”, ma “anche per il dolore”. Capire il dolore, crescere col dolore, provarlo ad accettare, sperando che anche la prossima guerra finirà. E, magari, la prossima volta, in questo ciclo infinito, non ce ne sarà un’altra. Per ogni guerra che finisce, ci sono migliaia di stanze che rimangono vuote, e migliaia di mondi che nascono e muoiono.
Nicola Settis, Marco Romagna