Vedere oltre il vedere, è possibile? Anzitutto dobbiamo immergerci, o almeno provarci, nel punto di vista di un cieco. Ogni movimento, ogni riflesso, ogni atto è un qualcosa che noi vediamo ma che è precluso al protagonista. Jaakko è (diventato) cieco e disabile, costretto su una sedia a rotelle. Ama Sirpa, gravemente malata. Vivendo distanti, non si sono mai incontrati di persona, ma si sentono ogni giorno al telefono. Lui è estremamente intelligente, cinefilo, aperto. Lei è dolce, fragile, in eterna attesa. Quando Sirpa resta sconvolta da una notizia scioccante, Jaakko decide di andare da lei immediatamente, nonostante le proprie condizioni. Da lì ha inizio una piccola (o forse enorme) odissea moderna, quel viaggio senza fine verso l’amata. Deve fare affidamento sull’aiuto di cinque estranei, in cinque luoghi: da casa al taxi, dal taxi alla stazione, dalla stazione al treno, dal treno al taxi e, infine, dal taxi a lei. Dovranno essere le sue gambe, ma soprattutto i suoi occhi in quell’attraversamento così essenziale ed esistenziale. Cercherà la luce, e invece troverà il buio. La disillusione legata alla condizione umana (prima che alla propria), la fiducia che viene meno nei confronti dell’altro, il dramma dell’essere impotente di fronte alla cattiveria. Ma forse, nel finale, giungerà anche a un sentimento di redenzione, o forse semplicemente al destino che – di fronte al suo dramma – lascerà aperta una certa speranza. Jakko inconterà Sirpa, per un eterno controcampo che riconcilia anche noi stessi sul nostro essere qui, a guardare l’invisibile. Ogni viaggio, pur minuscolo che sia, rappresenta un’evoluzione formale e morale della propria anima, e così è pure per il nostro strambo protagonista che ri-acquista una nuova capacità di sentire il mondo, lontana dalla percezione di quei film che riuscì a vedere prima della sua cecità e che, in un certo senso, mostravano tutta la sua visione della vita.
Apparentemente un thriller, forse un film esistenziale, sicuramente slegato e quasi riluttante a un certa pratica pietosa e paternalistica sulla disabilità e sull’affetto a essa specialmente dedicato (lo stesso Jaakko si ritiene a tratti disgustato dall’atteggiamento rivolto nei suoi confronti). La struttura narrativa è in un certo senso classica, quasi monolitica. Dalle coordinate della vita del protagonista, la problematica quotidianità, si carrella sulla sua torrenziale collezione di film, sull’assistente, e poi sulla voce di Sirpa. Ecco l’obiettivo e poi la serie di ostacoli per raggiungerlo, in un processo di derive e di scarti in cui il nostro eroe si troverà in una certa forma di nudità davanti alla sua mancanza. Ma proprio in questa struttura si innesta la genialità di Jaakko, i suoi occhi oramai diventati i nostri, o forse semplicemente quelli del cinema con cui ordinare gli elementi del reale e definirli, catalogarli, configurarli. Ogni mossa è una battuta tratta dalle sue visioni, anche nel momento in cui il dramma affiora, sempre nella pellicola trova un possibile appiglio di resistenza, ribaltando situazioni prossime al baratro. Come se, in un certo senso, aver visto fosse una forma di vedere infinito, di re-visione, di comprensione della vita (o del prossimo futuro) anche quando la cecità impone solo il buio. Questo suo umorismo filmico (quasi astratto), in fondo, è una forma spirituale di accettazione del destino e di continua sfida a esso, terribilmente romantica proprio perché forse assimilabile a quella di una figura in lotta nel paesaggio all’interno di un western terminale. E proprio lo scarto di quell’ostacolo, la rottura dall’interno di quel sistema perennemente ciclico di sopravvivenza, porterà Jaakko a una riscrittura personale del dramma, nell’affioramento e nello sviluppo di quegli altri sensi lasciati provvisoriamente incapsulati nella custodia di quella miriade di DVD, in quella negazione di vita che la sclerosi multipla pian piano si era portata via, lasciando però in eredità la memoria di un immaginario cinematografico che diventa l’unica possibile immaginazione residua, la forma (o l’ombra, o la luce, o i non-più-occhi) di tutta la voglia di scoperta che ancora alberga nell’anima di un uomo così strambamente meraviglioso, eccentrico, magico.
Petri Poikolainen, il nostro Jaakko, è un amico di lunga data del regista, attore teatrale sofferente propio della stessa malattia che ha colpito il protagonista. L’avanzamento è, purtroppo, assai aggressivo e ormai riesce a muovere bene solamente una mano. Nikki decide così di girare in fretta un cortometraggio (poi ampliato a questa durata di poco superiore agli ottanta minuti, e poi presentato come lungo fra gli Orizzonti Extra di Venezia 2021) filmando questo viaggio apparentemente impossibile che Petri riesce ancora a compiere da solo, seppur con enormi difficoltà. Entra così – narrativamente – la figura di Sirpa, quel qualcosa a cui tendere che Petri forse oggi non trova, ampliando così nella vita un’esperienza provata al cinema. Quello artigianale, che trova la sublimazione in Carpenter e che deride l’opulenza di Cameron, quello che sfonda qualsiasi possibile parete tra realtà e finzione, quello che ci insegna ancora qualcosa sul cosa possa significare vedere (e vederci) nella nostra ossessiva stratificazione di immagini nell’occhio (quasi a saturarlo verso altre forme di cecità). Noi siamo semplicemente una sfocatura (agli occhi di Jakko/Petri, come a quello della macchina da presa), l’immaginazione di un non vedente che cerca di definire forme nei colori tenui della realtà, ricreandone possibilmente prospettive e profondità, una continua esperienza di minime percezioni che fanno un insieme. Ed ecco allora che l’apparentemente classica ed elementare struttura del film deraglia nei gesti infinitesimali, nelle citazioni geniali, nella mobilità di una camera vorticosa quasi a strappi, scalini, gradoni. L’inquadratura è topografia di barriere architettoniche (forse anche morali), sussulta e strappa, pare perdersi nella ricerca di un fuoco. Si muove così fino alla rivelazione, fino quando anche noi riusciamo a vedere altro. Sokea mies, joka ei halunnut nähdä Titanicia si conclude così, semplicemente. Campo e controcampo, così potenti quanto elementari, in modo quasi prevedibile per lasciarci però così colpiti, forse affondati come quella crociera partita tempo fa alla volta dell’America, chiamata Titanic. Chissà se Jaakko e Sirpa mai lo vedranno quel film, chissà se ci sarà ancora un tempo per il loro amore. Chissà come riusciranno a guardarsi quelle due voci che spesso – come senz’atro a tutti noi è capitato negli ultimi due anni – assieme cercavano una forma di luce verso cui dirigersi nelle nostre continue solitudini. Non è forse più il tempo di domande, solo di vivere.
Erik Negro