The Black Dahlia è per molti il punto più basso di Brian De Palma, il suo blockbuster in costume manierista e fallimentare. Il suo Gangs of New York, se vogliamo, un momento di analisi storica con alto budget e alte ambizioni, ma confuso nello script o bucato nel tessuto della rappresentazione da qualche piccolezza troppo barocca. In entrambi i casi, nonostante i problemi siano evidenti, probabilmente la critica è stata troppo ingenerosa nei confronti degli autori, poiché le rese storiche un po’ sopra le righe messe in campo da Scorsese e da De Palma sono in realtà profondamente suggestive, e ciò in proiezioni in pellicola si nota particolarmente, e soprattutto perché la molteplicità dei personaggi e il processo di “ridicolizzazione” degli schemi logici dell’intreccio (soprattutto in The Black Dahlia) ha poco vero impatto sull’organizzazione generale del film. Il film di De Palma, perlomeno, ha il grande pregio di essere uno dei più accorati e ben eseguiti tributi al noir anni ’40. Le firme stilistiche del regista di Vestito per uccidere sono meno sgargianti e plateali che nei suoi film più profondi e personali: lo split-screen, per esempio, è praticamente assente. Si piega alle regole del film noir/gangster degli U.S.A. del passato, rifancendosi a Raoul Walsh, John Huston, allo Scarface di Hawks, a Billy Wilder, Michael Curtiz, Robert Siodmak e Orson Welles. Si nota dai lunghi piani sequenza aerei con cui il film si apre, che hanno la stessa fluidità e atmosfera (ma non la stessa qualità informativa) del celeberrimo prologo de L’Infernale Quinlan, e si nota dall’uso delle dissolvenze, dai movimenti di macchina, dai tagli di luce, dai primi piani insistiti e dall’attenzione per il dettaglio e per il McGuffin, con una confezione di fiammiferi che è trattata dalla cinepresa con una sottigliezza e una cura paragonabile a quella che Hitchcock riserva alla chiave rubata da Ingrid Bergman in Notorious. De Palma cerca di deturpare l’immaginario del film sessualizzandolo, trasformando in ‘femme fatale’ un po’ sui generis la mogliettina del partner del protagonista, interpretata da una Scarlett Johansson agli apici della sua bellezza, corrompendo i poliziotti, inserendo una sottotrama saffica con scene di sesso esplicito, proiezioni di video softcore e irrealistici locali per lesbiche con danze sensuali decisamente strabordanti per una società tendenzialmente omofoba considerati gli standard della società statunitense dell’epoca immediatamente successiva al proibizionismo. The Black Dahlia ha una regia impreziosita da prolungate riprese in soggettiva, inseguimenti per le scale a metà tra Vertigo e Intrigo Internazionale, brevi frammenti sanguinolenti, indagini appassionanti, montaggi alternati evocativi e quasi ‘horrorifici’ che riescono nel buon intento di rendere l’ultima parte del film un costante crescendo, nonostante per più di due ore l’attenzione possa calare.
È un piccolo grande esempio di postmodernismo giallo, in cui lo scorrere reale degli eventi si incrocia con la suggestione del narrato, in cui il mistero si aggiunge all’evoluzione esistenziale e colma di dilemmi etici che circondano lo stolido protagonista “faccia d’angelo” interpretato da Josh Hartnett. C’è forse un problema anche di didascalismo, evidenziato da un paio di sequenze con delle linee di dialogo di troppo, come esplicitato dalla altrimenti intensissima sequenza in cui il protagonista assiste alla cremazione dell’amico e collega sbirro e boxer (interpretato da Aaron Eckhardt). Questa scelta di importanza del dialogo tuttavia aiuta nel comprendere in maniera più netta una delle principali tematiche del film, l’amore per il mistero della morte, l’innamoramento sessuale e romantico nei confronti di un corpo che ha abbandonato la vita, quello di Elizabeth Short, la “Dahlia Nera” sessualmente ambigua caduta vittima degli omicidi seriali irrisolti ai quali il film si ispira. Come in Laura di Otto Preminger o, in maniera più sottile, in Twin Peaks di Lynch, che con De Palma e Schrader compone un’interessante triade di autori atti a superare, in tre maniere radicalmente diverse, alcuni dei limiti formali della New Hollywood. Il cadavere della Dahlia Nera, decomposto, diventa spettro e riflesso delle ossessioni di un personaggio, come poco tempo dopo sempre in De Palma il corpo della donna violentata dai soldati di Redacted diventa ultimo baluardo delle ossessioni disgustose dell’uomo; oltre a esso, fantasma seducente e portatore di morte, c’è il corpo della vittima quando era ancora in vita, percepibile solo attraverso il muro lucente del video, i provini cinematografici di un’attrice che non ha avuto modo di recitare alcun ruolo se non quello di se stessa. La problematica del suo futuro, troncato in due dalla solita stoltezza della violenza umana, che in De Palma è fulcro e origine di qualsiasi corruzione del reale e di qualsiasi efferatezza che può bucare l’illusorietà della rappresentazione filmica.
Non sarà un’epopea ultra-hitchcockiana che materializza la confusione di un serial killer, non sarà un’investigazione dei ritmi del cinema e ovviamente non sarà una grande sperimentazione formale. Ha dei momenti di stanca e di retorica, delle lungaggini e dei didascalismi difficili da non notare. Ma ci pare davvero difficile attaccare il cuore denso e cinefilo di The Black Dahlia, ci è arduo affrontarne la visione con la freddezza critica che caratterizza generalmente la percezione di esso da parte del pubblico. La differenza di qualità rispetto ad altri film di De Palma è legata comunque a piccolezze mal amalgamate in un minutaggio comunque abbastanza considerevole, più che a un vero e proprio difetto stilistico, visto il materiale di partenza (la prosa di Ellroy è sempre stata più affascinante che logicamente comprensibile), le musiche di Mark Isham, che musicò America Oggi e The Majestic, la fotografia di Vilmos Zsigismond, premio Oscar per Incontri ravvicinati del terzo tipo e collaboratore frequente sia di De Palma che di Cimino, e il montaggio di Bill Pankow, che lavorò per Ferrara in Fratelli e per Schrader in Cortesie per gli ospiti. Le problematiche evidenti del film rimangono comunque oscurate da una grande ricerca di rappresentazione che è e sarà per sempre il pregio principale di uno dei più versatili posizionatori di cinepresa che Hollywood ha.
Nicola Settis