La filmografia di Harmony Korine è scostante, monolitica, ma in modo libero e spudorato. Le pause di anni tra un film e l’altro sono irregolari, le sue comparsate nel mondo dell’arte al di fuori della regia di lungometraggi sono eccentriche e imprevedibili, e, pur vivendo con uno sguardo e un respiro comune, i suoi film si differenziano sempre per stile e tendenzialmente per intento ultimo. The Beach Bum per certi versi sembra un passo necessario dopo Spring Breakers, anche se probabilmente un passo (di poco) indietro: nella sua apparente semplicità narrativa, il precedente lungometraggio del regista è già un cult del cinema d’autore contemporaneo, un monumento al pop la cui beata sfacciataggine corrisponde con un’onesta e coraggiosa idea di rappresentazione dell’odierno. Anche se potrebbe non essere stato un superamento definitivo a livello qualitativo all’interno dell’opera di Korine, Spring Breakers è stata l’apertura di una porta, interna alla sua filmografia ma anche in generale nelle tendenze del cinema, che è riuscita a dare una forma definitiva (almeno per quando riguarda l’immaginario statunitense indie e hollywoodiano…) a un immaginario filmico di crasi tra il cinema underground americano, tra l’estetica del videoclip postmoderno e il montaggio non-consequenziale consolidato dal New American Cinema e dalle nuove onde europee degli anni ’60.
Ma al di fuori delle considerazioni fattibili a livello storico, artistico ed estetico, a colpire sempre nei film di Korine è l’amore nei confronti dei personaggi, l’affetto incondizionato e mai accusatorio del suo sguardo, qualsiasi finisca per essere l’atto o il personaggio grottesco messo in scena. È un regista a modo suo scomodo, ma non si pone come obiettivo quello di dare lezioni allo spettatore, quanto di fornire testimonianze iconografiche mediante ucronie fangose che abbracciano l’essenza più profonda e istintuale dell’attualità. The Beach Bum è esteticamente vicino a Spring Breakers, un po’ per questioni di budget e un po’ per la riconoscibilissima fotografia di Benoît Debie, ma soprattutto per l’approccio postmoderno alla materia, citando in maniera diretta, pur mediante un fluido montaggio inconscio e fuori dal tempo del racconto, le fonti d’ispirazione – in Spring Breakers Gucci Mane e Britney Spears, qui Snoop Dogg e i cannoni sproporzionati degli stoner movies di Cheech e Chong.
Ma, ovviamente, non è solo questo. I film non sono mai davvero solo accozzaglie di riferimenti, e quelli che lo sono sono aria fritta. The Beach Bum è un film divertito che usa quei riferimenti per farsi portavoce di una sottocultura, per urlare rappresentanza con un certo approccio spensierato e “sballato”, ma a suo modo poetico, verso l’esistenza. Il protagonista titolare è il Moondog di Matthew McCounaghey, un poeta surreale e un po’ beat che viaggia liberamente tra una donna e l’altra, lascia la sofferenza dentro ed esprime principalmente gioia e desiderio, necessità di divertirsi. Gli spettatori che guardano ai film di Korine con fascino ma dall’alto verso il basso, come adoperando un’ottica di giudizio caratteriale che è proprio ciò che l’idea del regista tendenzialmente rifugge, devono empatizzare con Moondog, trovare poesia nel suo essere. Non è un prototipo preadamitico dei bassi impulsi umani, ma un messia onesto e utopico di un mondo che si sta sciogliendo – un mondo che vive con quell’impeto, e cerca di resistere come può. Sia chiaro, Moondog non è neanche una prosopopea dell’immaginario stoner; è un poeta brutale, un eroe sprezzante e irrispettoso, ma necessario. Korine lo forma e lo distrugge raccontando le sue avventure come se fossero incontri casuali nell’epica omerica, alternando cupe tragedie a lunghe sequenze comiche spesso improvvisate, volutamente scomposte e non-consequenziali nel montaggio, ma tutto scorre liscio. È un’avventura, in cui il film urla allo spettatore che il protagonista è un mito, tra fughe dalla riabilitazione e furti ai disabili, ma alla fine, in qualche modo, l’icona di Moondog è stabilita, il suo intento è giustificato, la sua estetica, le sue motivazioni e le sue azioni sembrano giungere a un compimento logico ed esplosivo che conferma l’eroismo solo suggerito.
La natura episodica del film ne scandisce il ritmo, e l’intuizione dietro un singolo personaggio finisce per plasmare un mondo intero di assurdismi. Come in Mister Lonely, i reietti adorabili del mondo circostante finiscono per inondare lo schermo, sottolineando e dando luce ai protagonisti ma anche brillando di vita propria; in questo caso, i personaggi interpretati da Zac Efron e Martin Lawrence portano a sottotrame imprevedibili che proseguono in un percorso di ramificazione delle nuove icone degli USA. E, a dire il vero, più o meno come in Spring Breakers, è difficile davvero analizzare la materia estraendosi dall’esperienza diretta della visione: è un piccolo viaggio ed è giusto farsi trascinare. Non essere passeggeri né inseguitori di Moondog, ma suoi compagni di viaggio. Credere in lui anche al costo di mandare a quel paese la sospensione dell’incredulità con un compimento sin troppo soddisfacente. Korine fa i film che vuole vedere (e magari annusare, come con l’odorama alla ganja della distribuzione limitata statunitense), per dipingere gli ideali e i simboli in cui vuole avere Fede. Ed è difficile non provare qualche affetto o qualche fiducia verso Moondog, se si è pronti ad accettare il viaggio…
Nicola Settis