GLI SPIRITI DELL’ISOLA (2022), di Martin McDonagh
Martin McDonagh è l’incontro culturale tra Londra e l’Irlanda: cresciuto nella capitale del Regno Unito con formazione e genitori irlandesi, è uno dei più premiati autori teatrali e cinematografici dell’isola. Più che l’occhio di una cinepresa, McDonagh è una penna creativa, e nell’esordio col lungometraggio In Bruges aveva dimostrato una capacità innata di gestire un ritmo situazionale e grottesco, dando al realismo nevrotico della vita postmoderna un’aura umoristica che gioca con il filosofeggiare a vuoto di Samuel Beckett senza mai sprofondare nell’Assurdo. Negli anni ’10 ha provato a sbarcare in Usa con un “pulp” (7 Psicopatici) e un dramma satirico (Tre manifesti a Ebbing, Missouri premiato a Venezia), scostante il primo, più compatto il secondo. Il suo nuovo film The Banshees of Inisherin, presentato in concorso a Venezia nel 2022 prima di uscire in sala in Italia a febbraio 2023 con il titolo Gli spiriti dell’isola, è una commedia nera, ed è pura Irlanda (con le sue piogge, il suo fango e il suo pessimismo) già dal titolo; Inisherin è un’isoletta (immaginaria) vicino all’Irlanda, e le «banshees» sono fate urlanti dei miti irlandesi e scozzesi, “spiriti dell’isola” che danno il titolo al film e a un brano musicale che uno dei due protagonisti compone nel corso della narrazione, e che mai sentiremo. Una sensazione di apertura, di tuffo nell’ignoto verso un mondo sconclusionato, non definito. Il tema è la rottura di un’amicizia: è il 1923, e tutti i giorni, Pádraic (Colin Farrell) passa a casa di Colm (Brendan Gleeson) e vanno insieme al pub, sono inseparabili. Ma questo, pure, non lo vediamo. Nel prologo, infatti, Pádraic bussa alla finestra di Colm pensando che andrà come una giornata qualsiasi, per poi scoprire poco dopo che Colm ha deciso di punto in bianco di smettere di frequentarlo perché, a suo dire, i due passano troppo tempo insieme ad annoiarsi chiacchierando di cose inutili, e vuole dedicarsi alla composizione di un brano per violino, appunto intitolato ‘The Banshees of Inisherin’. Nel film non ci sono streghe urlanti, ma un’aura di morte aleggia nell’aria, sia per la presenza della vicina di Pádraic, la signora McCormick, sempre vestita di nero con una parvenza fantasmatica, sia per la macabra promessa che Colm fa all’ex-amico di fronte ai suoi patetici tentativi di riconquistare il suo affetto: si taglierà con una cesoia un dito della mano sinistra (piccola annotazione, forse poco importante ma a cui non si può non pensare: nel film ci si taglia via un dito senza conseguenze fatta eccezione per il dolore fisico, niente setticemia, disinfezione, niente di niente, bizzarro), quella con cui suona, per ogni volta che Pádraic gli rivolgerà la parola. Questo patto che dovrebbe innescare un meccanismo di rimorso e colpa in Pádraic, invece, risulta l’inizio di una guerra privata tra loro, mentre all’orizzonte si vedono le esplosioni sulla ‘mainland’ per la guerra civile, mentre i paesani non sanno da che parte stanno, o chi stia vincendo, o persino perché questa guerra stia venendo combattuta. Una battuta conferisce il senso all’intera operazione: «Quanto era bello quando eravamo tutti dalla stessa parte e combattevamo solo gli inglesi…».
Una piccola opera per sforzo e investimento produttivo, aspetto chissà quanto condizionato dal periodo pandemico, ma che si fa forza della solidità di uno script che è in realtà la terza parte di una trilogia (di Aran) di opere teatrali, mai andata in scena al contrario delle altre due. McDonagh, cosciente di avere tra le mani del materiale con necessità di “allargamento”, aggiunge un elemento che il teatro non poteva necessariamente restituire: la direzione e l’orientamento dello sguardo. In tutti i momenti in cui i nostri protagonisti sono impegnati nelle piccole/grandi beghe paesane, dove la rottura dell’unica relazione umana può significare l’isolamento perenne, i loro sguardi non hanno “fuga” né orizzonte, sono rivolti all’interno dell’isola e di conseguenza al proprio interno, chiusi in un piccolo individualismo che non riesce a farsi “mondo” per mancanza di mezzi, prima di tutto intellettuali (si è “nervosi” o “tristi”, non depressi). Ogni volta che, invece, si pone lo sguardo sul mare sconfinato, si guarda il vuoto sottostante da un promontorio o la patria lontana ma vicina, a un tiro di schioppo, anche il livello delle riflessioni si alza, ai allarga, raggiunge un diverso grado di consapevolezza della complessità esistenziale. Soluzione di sicuro molto semplice, ma perfettamente funzionale al contesto. Nel computo degli sceneggiatori passati alla regia, ci sembra di trovare nel cinema di Martin McDonagh un grado di consapevolezza visiva maggiore rispetto ad altri celebri rappresentanti, vedi Paul Haggis e, soprattutto, Aaron Sorkin, spesso frigido impaginatore dei suoi scritti.
Il film si basa, dunque, su un meccanismo a incastro di eventi e personaggi che non è magari solo e soltanto pura scrittura, ma in cui quest’ultima rappresenta di sicuro la parte incisiva e preponderante. I protagonisti compongono un ottimo cast, in particolare Gleeson, che troneggia su tutti, ma anche Farrell e Kerry Condon, che interpreta sua sorella, e Barry Keoghan, che invece è Dominic, lo scemo del villaggio, che cerca di fare il mediatore tra i due ma fallisce. Molto interessante la piramide culturale che i quattro rappresentano, con chi sta sopra che guarda chi sta sotto non solo dall’alto in basso, ma con la convinzione di non avere (più) nulla da imparare da lui. Pádraic si sente, e magari è, più intelligente del reietto Dominic, ColmSonnyLarry (questo il nome completo del personaggio interpretato da Brendan Gleeson, uno scioglilingua “musicale” a pronunciarsi, come la professione di chi lo porta) non vuole più parlare a Pádraic per la pochezza intellettuale della conversazione («l’altra sera hai parlato per DUE ORE, le ho contate, di quello che avevi trovato negli escrementi del tuo mulo»); la più colta di tutti, Siobhan, corregge Colm denudandone la tracotanza, e ben presto troverà soffocante un contesto non solo isolato, ma tutto declinato al maschile.
Un contesto cui fanno parte anche uno sbirro cattivo, una signora delle poste pettegola e un barista e il suo gemello che si completano le frasi a vicenda, ripetendosi con effetto comico. Ci troviamo di fronte, dunque, a un raccontino favolistico ma realistico, funereo ma con una certa tenerezza, tutta costruita nel naturale intrattenimento che scaturisce dallo sfilacciarsi del rapporto tra i due protagonisti, con interazioni imbarazzate che diventano tese, fino all’eventuale climax. Gli equivoci si annodano in una catena di dialettica su carta che, in immagine in movimento, è traslata senza uno sguardo particolarmente accurato. Buona parte delle scene risultano debitrici di un linguaggio di forma teatrale, cercano l’efficacia nei botta e risposta senza dar troppo spazio a sequenze che possano sfruttare appieno il mezzo: la vivacità di messinscena e impostazione appare e scompare, come la vecchia strega che funge da monito e anticipazione degli eventi (ma, ennesima soluzione di scrittura, con un “forse” che porta la spettatore fuori strada fino all’arrivo del segmento risolutivo). La tenera e memorabile solitudine dei protagonisti a tratti è stilizzata, non valorizzata da un impatto visivo spesso grigio e non troppo ispirato, dove gli unici guizzi sembrerebbero essere quelli del tanto indugiare sulle uniche vestigia non abitate del tempo passato, dei residui di cinta murarie in pietra che non circondano più nulla (e qui bisogna stare attenti nel conferirgli significato, perché si rischierebbe di sovrainterpretare).
In ultima analisi, dunque, un’opera che abbiamo apprezzato e che ci ha convinto, ma non al punto di unirsi ai peana ricevuti da più parti ritenendoli un po’ eccessivi. In altri tempi ed edizioni, questo film si sarebbe agevolmente piazzato in una fascia medio/alta tra quelli in competizione; se risulta essere invece uno dei migliori del Concorso, quest’anno, bisognerebbe interrogarsi un po’ più a fondo sulla qualità complessiva della selezione e sul criterio delle scelte compiute. Ma questa, come si chiudono tante favole, è un’altra storia…
Donato D’Elia, Nicola Settis