LA BALLATA DI BUSTER SCRUGGS (2018), di Joel e Ethan Coen
«Abbiamo sempre amato i film a episodi, specialmente quelli italiani degli anni Sessanta, che proponevano il lavoro di registi diversi intorno a un tema comune. Avendo scritto un’antologia di racconti western, volevamo fare lo stesso, sperando di poter contare sui migliori registi in circolazione. Abbiamo avuto la fortuna che entrambi abbiano accettato di partecipare». Con questa spavalda e irresistibile dichiarazione, i fratelli per antonomasia del cinema statunitense si presentano alla 75esima Mostra di Venezia, presentando in concorso The Ballad of Buster Scruggs, un’opera lungamente rumoreggiata (nel senso inglese del rumour, il pettegolezzo, la diceria) perché se ne discuteva già da molto tempo in quanto prima e inattesa incursione di Joel e Ethan Coen nella “televisione”, per mano, ovviamente di Netflix. “Televisione” ormai non vuol dire più nulla, il banco è saltato, tutto è confuso, da un lato si fanno i film coi cellulari e dall’altro i migliori registi e direttori della fotografia comprimono le loro immagini e il loro immaginario per la fruizione su piccoli, piccolissimi e microscopici schermi; in questo festival molti film sono progenie dei network, perfino il papabile vincitore Cuarón fa parte della scuderia. I Coen, comunque, dopo che si sono perse le tracce di questa loro operazione che prevedeva una mini-serie da sei episodi di genere western (genere sempre affrontato a modo loro, quindi trasceso, arricchito e prosciugato allo stesso tempo con lo stile e la scrittura), ne hanno tirato fuori una versione cinematografica, che raccoglie le sei short stories in poco più di due ore. Il comitato di selezione del festival ha optato per il concorso, e gliene siamo grati, sempre e comunque.
Al di là di tutto ciò, comunque, con dolore siamo costretti a rilevare che l’esito del film è sotto le aspettative, almeno per noi che da sempre siamo convinti e appassionati fan dei fratelli Coen. Non si sa bene se le esigenze di compressione delle storie abbiano nuociuto al risultato finale, o se l’esito sarebbe stato così diseguale anche sviluppato su tempi più lunghi, ma questa frammentarietà relega The Ballad of Buster Scruggs a un importante – nonostante tutto – laboratorio creativo, uno studio (per dirla in termini musicali o pittorici) che fa una ricognizione delle lezioni già apprese e prova a metterle in pratica e a testarne l’efficacia per le opere a venire. Il cast tecnico è lo stesso di sempre, la confezione è di indiscutibile fascino (costumi di Mary Zophres e scene di Jess Gonchor, suono di Skip Lievsay con la solita cura anche del minimo dettaglio, e poi le musiche del fedele Carter Burwell che attingono all’immaginario classico delle melodie western), dietro la macchina da presa non c’è Deakins ma Bruno Delbonnel, che aveva fatto un lavoro sublime con Inside Llewyn Davis e che questa volta si deve confrontare con un immaginario diverso da quello di elezione, essendo lui abituato a un lavoro sulla luce più drammatizzante ed espressionista che questa volta deve confrontarsi, per la quasi totalità del film, con gli spazi aperti, la luce naturale, il paesaggio canonizzato in più di un secolo di vita del genere cinematografico più antico di tutti. Una rapida panoramica degli episodi: i più convincenti sono i primi due, quello con il gallo canterino quasi di derivazione disneyana Buster Scruggs (il sempre straordinario Tim Blake Nelson, artista totale, qui impegnato in una vertiginosa sintesi fra il western e il musical), che parla in macchina e pare infallibile nella sua vorticosa spirale di violenza, e il secondo con James Franco, che interpreta un balordo rapinatore di banche, sperdute nel deserto, che finisce sulla forca pronunciando quella che, comunque, rimane la battuta più esilarante ascoltata al festival. Questo secondo episodio, inoltre, contiene delle trovate quasi metafisiche, con anche ironia in veste slapstick, in puro stile-Coen.
Nel terzo episodio, fin troppo verboso e prolisso, Liam Neeson è un impresario che tenta di sbarcare il lunario facendo esibire un ragazzo monco di braccia e gambe che ha portato dall’Europa davanti a platee progressivamente meno affollate, finché non c’è il vuoto. L’amputato è interpretato da Harry Melling, che a Neeson ruba la scena, per quanto non ci volesse un granché: irriconoscibile, i più attenti riconosceranno in lui il Neville Paciock della saga di Harry Potter, cresciuto e dimagrito. Il quarto episodio è destinato a diventare un piccolo cult anche solo per la presenza di un istrionico e solitario Tom Waits, cercatore d’oro nei fiumiciattoli (è il secondo western del concorso, insieme a quello di Audiard, e in entrambi vediamo scene di caccia all’oro), immerso nella natura, in conflitto con l’ambiente circostante. Il quinto episodio, con Zoe Kazan, è quello che più di tutti si rifà a un’estetica consolidata, dall’uso del paesaggio, al tema dell’esodo e al romanticismo di frontiera, fino allo scontro con gli indiani, girato benissimo e con grande mestiere, come la sequenza della sparatoria a distanza ne Il Grinta. Che però, appunto, è mestiere, e noi da Coen pretendiamo come minimo il grande artigianato. L’ultimo episodio, il più criptico e claustrofobico (ambientato tutto all’interno di una carrozza, riferimento a Stagecoach di Ford in revisione pseudo-beckettiana), ha per protagonista un misterioso Brendan Gleeson che pure si lancia in momenti canterini, e nel frattempo intavola discorsi con i suoi compagni di viaggio, una golosa occasione di scrittura, immaginiamo, per Ethan Coen, drammaturgo di professione, che vorrebbe raggiungere le vette surreali dell’incompiutezza esistenziale di A Serious Man, ma non ottiene l’esito sperato. I Coen lavorano con l’immaginario della frontiera e con le potenzialità grottesche e metacinematografiche di questo mondo, ma il loro giocare con il cinema qui purtroppo non convince, non ha spesso respiro né vitalità; ma ciò non ci fa dimenticare il nostro amore verso i loro film, e ovviamente questa parziale delusione non ci fermerà dal continuare a seguire il loro cinema purissimo in ogni nuova uscita e in ogni futuro sforzo.
Elio Di Pace
[edit: vincitore del premio per la migliore sceneggiatura nel concorso di Venezia75]