THE BAD BATCH (2016), di Ana Lily Amirpour
Una ragazza bionda in shorts, con smile annesso sulla parte posteriore dell’indumento, oltrepassa un’area e si inoltra in una terra di nessuno dove regnano l’abbrutimento e l’assenza di civilizzazione, un “lotto difettoso” popolato dai drop out della società, dagli scarti prodotti da un’umanità che ha smarrito se stessa. Si tratta di cannibali che vivono in una vera e propria discarica a cielo aperto che coincide col deserto texano, un mondo rovesciato popolato da subumani che praticano la mutilazione per poi cibarsi delle parti del corpo amputate.
Arlen, interpretata da Suki Waterhouse, riesce a scappare e approda a Comfort, un’altra località dalle atmosfere lisergiche e dalle percezioni alterate dove la droga, la musica e la retorica populista a metà tra il declamatorio e lo sciamanico la fanno da padrone, unita a violente pratiche di prevaricazione sessuale. Sulla sua strada, la ragazza si imbatte nel muscoloso e rozzo cubano Joe, interpretato da Jason Momoa: un incontro che porterà nella sua vita traiettorie del tutto inattese.
The Bad Batch, il secondo film della regista americana di origini iraniane Ana Lily Amirpour, è un film sgangherato e rapsodico che rilegge il mito americano in chiave weirdo, costruendovi intorno un paradossale e sconcertante alfabeto di citazionismo slasher, digressioni estetiche che accarezzano le soglie dell’astrazione e una costante alternanza di alto e basso, di rarefazione formale e sequenze in odore di gore. La parabola della Amirpour, ovviamente un road movie ma il più possibile frammentato e smembrato al suo interno, sulle orme di Mad Max e delle più celebri distopie cinematografiche ma con un piglio ben più squinternato, utilizza però il cannibalismo e degli inquietanti scenari futuribili non tanto, o meglio non del tutto, per esasperare la violenza grafiche e i toni profetici.
Non sembrano infatti interessarla né l’uno né l’altro aspetto (anche le sequenze di violenza sono piuttosto ellittiche e tendono a suggerire più che mostrare) e lo sguardo della regista di A Girl Walks Home Alone at Night sembra intenzionato piuttosto a vagare tra silenzi amplificati a dismisura, sequenze dilatate, voragini sonore dai contorni pneumatici, trovate che pescano a piene mani nel ridicolo (Keanu Reeves nei panni del Sogno Americano) e soluzioni grafiche così ingenue da risultare anche sfacciatamente didascaliche.
La Amirpour non trova insomma un suo baricentro e lo fa volutamente, alternando in maniera pulsionale e sconnessa l’alto e il basso, alzando la posta in gioco a più riprese e abbassandola poi di colpo in maniera altrettanto siderale e vertiginosa. In The Bad Batch i passaggi stonati, gli elementi disorganici e le sfasature pertanto non si contano, e in gran parte sono da ricercare anche in tale oscillazione mal riposta tra la pretenziosità e lo stracult. Va detto, però, che è proprio da tale natura interdetta non conciliata che il film della Amirpour trae una dose di vitalità propulsiva e sorprendente, capace di volgere a suo favore anche ciò che è magari pretestuoso o al grado zero di originalità e brillantezza.
Nella fantascienza terminale venata di B-Movie della Amirpour non c’è posto, insomma, per il tratto smussato o per il bon ton: le tracce musicali sono usate il più delle volte come detonatori, i corpi sono segati a ritmo di musica, Karma Chameleon dei Culture Club viene usata contro se stessa, esattamente come i singoli attori, e gli aforismi d’accatto si sprecano (“Non puoi entrare in questo sogno, se questo sogno non entra in te”). Tuttavia il disegno d’insieme, proprio in virtù di una certa scaltrezza nel gestire un cattivo gusto al quale non è stato applicato il guinzaglio, possiede una sua forza malsana, in grado di reggere anche la gogna del nonsense e la metafora letterale e ingombrante di un American Dream ridotto a insegna, murales, ossessivo filo conduttore. The Bad Batch è un film sfilacciato e privo di un centro prospettico, urticante proprio perché randagio e imprendibile, sia nello sguardo che nelle molteplici provocazioni, specchio perfetto dell’animo selvaggio e indomito della sua autrice.
Davide Stanzione
edit: Vincitore del Premio Speciale della Giuria a Venezia 73