THE ALCHEMIST COOKBOOK (2016), di Joel Potrykus
Prima di tutto, va detto che The Alchemist Cookbook è un film semplice, e in quanto tale si merita una recensione semplice. Quello che segue è dunque un elogio molto conciso e volontariamente (necessariamente!) superficiale di quello che probabilmente è uno dei migliori horror degli ultimi anni: The Alchemist Cookbook è corto ed è minimalista, ed è costruito con una struttura a climax che va dalla contemplazione della natura al delirio autolesionista, passando per musica lirica, punk e rap e per scenette comiche che citano di tutto, da Rocky IV ai The Weeknd. E il film di Potrykus ha anche una caratteristica che ha dell’assurdo; crea un sacco di aspettative, tutte appagate dalla prima all’ultima, eppure riesce a passare dal bellissimo all’insopportabile nel giro di (e non esageriamo) 5 secondi. Gli ultimi 5 secondi. Ma andiamo con ordine.
Sean abita nel mezzo del bosco col suo gatto Kaspar, in una roulotte. Passa tutto il tempo ad ascoltare musica facendo esperimenti scientifici con come apparente scopo il risveglio di un demone per poter ottenere dell’oro, a causa di una sfortuna generalizzata all’interno della propria famiglia. L’unico contatto umano è con suo fratello Cortez, psicologicamente il suo opposto, che spesso va a casa sua per portargli viveri e psicofarmaci. Ovviamente, non può andare a finire bene. Il linguaggio del film è minimale e ridotto all’osso, solo l’essenziale è raccontato in maniera esplicita e alcuni dei dettagli che abbiamo inserito nella trama sono cose che credo di aver capito e non necessariamente cose dette all’interno del film, che appunto sin dall’inizio è misterioso e procede in maniera minimamente accennata, con pochissimo dialogo (giusto due-tre macrodialoghi tra i due fratelli e qualche sfogo di Sean che urla nel vuoto cercando di attirare le attenzioni del demone), tenendo l’orrore fuori campo. Il demone si vede in pochissime inquadrature ed è sempre o in sottofondo o all’ombra, creando un effetto particolarissimo di strisciante paura lovecraftiana, rendendo davvero efficacissimo il timore sottocutaneo che spesso manca nei prodotti orrorifici più amatoriali. Per questo motivo, The Alchemist Cookbook è davvero un gran film: alla fine noi facciamo spesso troppe riflessioni gratuite sul cinema e sui suoi significati nascosti, dalla politica alla riflessione sul mezzo stesso, e ci dimentichiamo l’importanza delle belle storie narrate bene. Verrebbe da cercare in The Alchemist Cookbook qualche significato profondo, ma probabilmente non c’è, o meglio c’è ma è veramente scontato: a volte, certe persone se le cercano. E Sean se la cerca molto più di altri personaggi dei film horror, perché non si imbatte per caso nel demone bensì decide di interagirci egli stesso, causando così dolore e morte per sé stesso, per Cortez, per Kaspar. Il regista Potrykus, tra l’altro, proviene dall’horror quanto dal fantasy e dalla commedia, ed entrambi questi generi riescono a far parte della visione del film: il fantasy nel design del demone e nel tipo di interazione tra Sean ed esso, la commedia in alcuni sfoghi solitari di Sean e soprattutto nei dialoghi con Cortez, nei quali traspare una dialettica frenetica improvvisa (forse improvvisata…) ad interrompere il silenzio, la dialettica della cultura hip hop, la dialettica degli afroamericani di The Wire.
Con un perfetto alternarsi tra inquadrature statiche e inquadrature movimentate, silenzio e dialogo, drone e sinfonia, The Alchemist Cookbook è un meraviglioso film sulla solitudine e sull’inquietudine, non un’inquietudine che fa saltare dalla sedia ma un’inquietudine che fa venire dei lenti brividi, che fa empatizzare con il protagonista e con le sue scelte irrazionali. Urla di esseri invisibili fuori dall’inquadratura, fiammate, sassi che cadono in acqua, uomini che resuscitano con sguardi spiritati, alternando la propria vera personalità a sfoghi brutali, demoniaci, stranamente semi-comici. Questo film ha tutto questo senza mai risultare eccessivo o noioso, sempre riuscendo nei propri intenti, usando anche gli stacchi di montaggio per rendere più intense e deliranti determinate scene in cui la solitudine e l’orrore cominciano a coincidere nel totale caos – una candela che fluttua con in sottofondo le urla della scena prima, o l’ossessivo susseguirsi dei versi di gatti, opossum e bestie fuori campo in ogni situazione consona al terrore. Sean è come se vivesse nell’alienante e spesso non considerata via di mezzo tra il Bene e il Male: è un buono, ma è avido, teme i demoni ma nel frattempo vuole che lo aiutino a racimolare oro, vuole essere salvato ma è un ingrato e appena esce dallo stato semidemoniaco incontra il demone e grida. È qui che il film all’improvviso diventa problematico, nel post-grido conclusivo: l’inquadratura, rimasta fissa per qualche minuto su Sean che si sacrifica scendendo nel lago per tornare normale, zoomma sul fermo immagine di Sean che urla, passando dalla fotografia normale ad uno s-pixelante filtro bianco e nero, trasformando, davvero, con un solo stolto stacco di montaggio, un film interessante in un film quasi trash – e perdonateci il termine. Succede così velocemente ed è così inutile, eppure così iconografico, sembra quasi che questo stupido fermo immagine sia l’inquadratura “da ricordare” del film, l’inquadratura cult, quella che rimane. E dispiace, perché tutto il resto funziona in maniera davvero sorprendente. Perciò, faremo finta che quel finale non esista, e ci crogioleremo nel mondo tranquillo e potente di The Alchemist Cookbook, da piani sequenza dedicati a disgustoso cibo per gatti fino a primi piani scurissimi di demoni. Queste sono le immagini che vogliamo ricordare, e che forse vedremo sporadicamente vagare tra i nostri fantasmi personali negli incubi delle prossime settimane.
Nicola Settis