THE AGE OF SHADOWS (2016), di Kim Jee-woon

Un capitolo importante (e spesso dimenticato in Occidente) della storia della Corea nel Novecento è stato il periodo tra il 1905 e il 1952, nel quale la Corea è passata da essere un protettorato giapponese ad essere una colonia dell’Impero fino a quando non è entrato in vigore il trattato di pace di San Francisco — dopo il quale, in un lungo processo, invece che l’agognata libertà e indipendenza totale, come sappiamo la Corea si è divisa in due paesi, la Corea del Nord e la Corea del Sud; e si potrebbe aprire una parentesi sulla guerra di Corea, ma a questo punto è meglio lasciar parlare le decine di film fatti a riguardo, da Corea in fiamme (1951) a Essi vivranno (1953). Diminuzione della libertà d’espressione, aumento esponenziale e quasi inquietante dei cittadini giapponesi, scintoismo religione di Stato: in una situazione talmente opprimente, è nata in Corea, in maniera parallela ai movimenti anti-fascisti nati nei regimi dittatoriali europei, una sorta di Resistenza. Nel 1930 Kim Gu fondò la Legione patriottica coreana, e cominciarono a verificarsi una serie di attentati clandestini, in cui l’assassinio dell’imperatore Hirohito era spesso lo scopo fondamentale. È da qui che nasce la storia alla base di The Age of Shadows (dal titolo italiano come sempre inspiegabilmente banale e idiota: Agente Segreto), il nuovo film di Kim Jee-woon fuori concorso a Venezia, un thriller spionistico che sancisce la maturità assoluta dell’autore sudcoreano, da anni tra i nomi più grossi nell’ambiente cinematografico del suo paese.

L’autore compone, con il violento ed estetizzante Park Chan-wook, il riflessivo e metodico Bong Joon-ho e lo straziante e deprimente Kim Ki-duk, una sorta di quartetto dei più intelligenti e popolari registi sudcoreani contemporanei — lascio fuori Hong Sang-soo per una semplice differenza stilistica, poiché i registi prima citati sono tutti autori tutto sommato violenti e profondamente integrati nello stereotipo del cinema coreano mentre Hong è un po’ un alieno, più vicino ad una sensibilità indie o nouvelle vague. Tuttavia, come il primo lascia parlare l’emozione, il secondo la sceneggiatura e il terzo i conflitti psicologici, cinematografici ed esistenziali, Kim Jee-woon ha sempre dato spazio allo stile, alla violenza, al carattere profondo dell’immagine. È vero, film come Oldboy (2003) di Park tendono a voler devastare la retina con psicodrammi tragici e brutali, basando tanto sulla caratterizzazione dei personaggi quanto sulla caratterizzazione delle inquadrature, ma con Kim Jee-woon è sempre stato un discorso più parallelo, meno separato: I saw the devil (2010), che prima di quest’anno era il film più intenso del regista, riusciva perfettamente a far appassionare alla storia di un uomo in cerca di vendetta pur mostrando entrambi i punti di vista, colui che si deve vendicare e la vittima della vendetta. Ma non era la psicologia dei personaggi a catturare quanto la maniera in cui erano ripresi, con vittima e carnefice che si scambiavano, convivevano nella violenza devastante delle inquadrature; e ogni scena diventava nel contempo orrore ed emozione, meraviglia e disastro, un pugno in un occhio e una carezza (un po’ morbosa) alla guancia. I legami tra i personaggi sono superficiali ma vengono trattati con una serietà magnetica che rende ogni particolare magico e potente, come nei migliori film di John Woo, per esempio The Killer (1989) o Hard Boiled (1992), però con più intensità emotiva e meno stilizzazione iconica.

The Age of Shadows procede in questa visione di stile e violenza psicologica in parallelo, ma lo fa con una quadratezza matura e potente senza pari nel suo cinema, ripescando le atmosfere noir già sfruttate in Bittersweet Life (2005) e applicandole ad un cinema politico di spionaggio duro e puro. L’inizio è folgorante: in Giappone, un criminale della Resistenza tenta di vendere una statua ma giunge la polizia giapponese, capitanata da un inetto nippo-coreano corrotto e corruttibile interpretato dal grandissimo Song Kang-ho (già protagonista di vari capolavori del grande cinema della Corea odierna, tra i quali spicca Memories of murder (2003) di Bong). Inseguimenti sui tetti, pugnali, proiettili. Questo spaventoso inizio in medias res serve solo ad introdurre un’oretta in cui il personaggio di Song, sinistrorso ma integrato nella società pseudo-fascista giapponese, oppresso ma troppo abituato ad opprimere, si trova tra le due parti del conflitto in costante difficoltà. Come in un film di Woo, tutto cambia grazie ad un rapporto interpersonale, quello che riesce a stabilire con un fotografo appartenente alla Resistenza, un’amicizia-fratellanza su cui è basata l’intera narrazione. È da lì che nascono incontri, scontri, amori, vicissitudini e meraviglie — ma, purtroppo, è da lì che nasce anche la difficoltà di comprensione di alcuni eventi durante questa prima ora, confusionaria come è normale nel genere spionistico; e da questo punto di vista attendiamo tutti una seconda visione per chiarirci le idee. Tuttavia, quando sia la polizia giapponese sia la Resistenza (che porta con sé esplosivi) salgono sullo stesso treno, con gli uni che inseguono gli altri ed entrambe le fazioni che sanno che nell’altra fazione c’è una talpa, comincia il thriller definitivo del festival e dell’anno. Il treno sarà forse una location adatta agli stilemi registici dei coreani, considerando la fluidità di Snowpiercer (2013) di Bong — infatti, la macrosequenza ferroviaria (che include, volendo, pure una impressionante scena d’azione in stazione) è stilisticamente straordinaria, uno dei maggiori climax di tensione e azione negli ultimi anni di cinema; una mezz’oretta abbondante di colpi di scena, sangue, respiro che va a mancare, senza mai fermarsi, con una dedizione hitchcockiana alla necessità di soffrire la tensione. Sembra a volte di trovarsi di fronte alla fluidità catastrofica e nichilista del De Palma più cupo, ma con una violenza ancora più marcata, che sembra quasi sfuggire all’inquadratura, con il sangue che sgorga e si mischia con l’acqua, con il sudore, con l’immagine.

Il senso di colpa, l’ambiguità dei rapporti, la vendetta, la resistenza alla violenza con la violenza: la complicatezza della narrazione si sposa magnificamente con un’emotività che ha dell’incredibile, il cui apice si ritrova verso il finale in un montage che va a ritmo di Maurice Ravel. È un film politico, densamente di sinistra, un film libero e attualissimo, benissimo collocabile nelle necessità dei cittadini sudcoreani nei confronti del regime dittatoriale dei loro parenti settentrionali; tra la regia, il montaggio e il sonoro, The Age of Shadows è uno dei film più stilisticamente riusciti del festival e dell’anno, un film che ricorda un passato difficile da dimenticare (almeno in Oriente…) con gli stilemi e la prepotenza del cinema (e della vita) del presente, un blocco di Storia, un film-mondo in cui immergersi, innamorarsi, empatizzare senza pausa; un’opera necessaria e potentissima, dolorosissima e pesante anche quando è disorientante, uno dei film dell’anno (e definirlo solo un film di genere sarebbe quasi offensivo), e un film di maturità definitiva per l’autore probabilmente più intelligente dell’intero panorama sudcoreano.

Nicola Settis