Tengo sueños eléctricos. “Ho sogni elettrici”. Sembra l’inizio di una poesia, e lo è. Il padre della protagonista, Eva, gliela legge, fiero, all’inizio del film: l’ha scritta lui. Sta dando sfogo al suo lato melanconico, letterato, esibendo in modo nuovo la sua fragilità. Ma Eva non batte ciglio e, tra la schiettezza e l’ingenuità, subito fa una superficiale critica: «non ha un finale». «Non deve averlo, è una poesia», ribatte il padre. E non tutte le storie hanno un finale, i particolare non quelle che sono raccontate per mezzi poetici. La regista esordiente Valentina Maurel, anche sceneggiatrice, non usa propriamente l’astrazione e il romanticismo nel narrare i suoi protagonisti, è bensì una prosaica iperrealista, un’autrice di personaggi. Tengo sueños eléctricos è la sua parziale autobiografia: il titolo poetico funge a suggerire la dimensione interiore dei protagonisti di un intreccio osservato perlopiù con attenzione a una rappresentazione oggettiva ed empatica di un conflitto interno a una famiglia di classe media in Costa Rica. Dopo la separazione tra i genitori, la diciassettenne Eva va a vivere con la madre ereditiera insieme alla sorella e al gatto che, disorientato dagli spostamenti continui, ha cominciato a spargere urina per i pavimenti di casa e ad attaccare chiunque gli si avvicini (eccetto la protagonista). La madre di Eva, da subito, in casa deve patteggiare con la figlia in una costante ricerca di tregua; il timore è che erediti dal padre un seme di violenza che già appare in germoglio. Martin, il padre, è in crisi di mezz’età e ha passato tutta la vita a lottare con la rabbia dentro di sé, sfogandola sugli altri o su se stesso senza calcolarne la forza. È un uomo “al limite”, stremato da un’interiorità incontenibile, ed Eva lo capisce, lo segue, trova in lui un riferimento maturo che più facilmente riconduce a sé – lei è consapevole della violenza interna a entrambi ma cerca il rischio per amore nei suoi confronti. Quello che i sentimenti, i dialoghi, gli sguardi raccontano come un rapporto tenero, nei fatti acquisisce grande ambiguità. Questo rapporto oscilla tra incomunicabilità e condivisione eccessiva, tra ira e affetto, in un contatto umano perpetuo di balli e abbracci che diventano schiaffi e pugni. Ciò che era delineato su carta come un dialogo indiretto si è trasmutato con le immagini in movimento in una relazione fisica, in una lotta tangibile che avviene tra i due come dentro entrambi.
Vincitore dei Pardi alla regia e alle interpretazioni femminile (Daniela Marín Navarro) e maschile (Reinaldo Amien Gutiérrez), indicazione evidente di essere tra i pochissimi film del concorso di Locarno 75 a essere stati graditi dalla Giuria, Tengo sueños eléctricos è innanzitutto una piccola inchiesta personale, un’intima manifestazione di una realtà privata. La macchina da presa segue Eva ovunque, anche e soprattutto nelle attività che i genitori non vorrebbero vedere: si masturba per noia, va a una festa con un’amica che si ubriaca e con cui è approcciata da ragazzi appena conosciuti, le prime sigarette (anche una ‘pucciata’ nella cocaina), e le prime esperienze sessuali. Un tabù dopo l’altro, Eva cercando una ‘vita estetica’ afferma la propria individualità, subendo traumi che danno alla sua formazione una concretezza inusuale. Duramente cresciuta tra eventi che la tirano da tutte le parti, la nostra protagonista minorenne trova nella relazione illecita con il coinquilino del padre, un uomo molto più grande detto “Colomba”, la principale fonte di stress emotivo. È manipolata anche lei dal proprio desiderio ma soprattutto dall’ignavia del “Colomba”, che dietro il suo cuore poetico nasconde un’identità fallace, in crisi, sempre alla ricerca di qualcosa da desiderare di inaffrontabile – proprio come Martin, che ogni volta che vede una donna le guarda il culo, ci prova con lei, spesso a rischio di mettersi in ridicolo. Eva si circonda di situazioni vignettistiche che la fanno sprofondare nella violenza e nella sessualità imperanti del mondo; e dunque si tuffa nel suo dolore, e conseguentemente nella sua ira, nei dilemmi tragici e a volte insuperati della post-pubertà con tutte le sue indecisioni. Con un montaggio frammentato che alterna lunghe, punitive immersioni nella vita di Eva a veloci gallerie di piccole disavventure, Tengo sueños eléctricos è un crescendo di tensione emotiva che rimane sempre sul filo del rasoio; ha un tempo interno che permette alla sceneggiatura e ai personaggi di evolversi in un breve tempo, di diventare reali, fino a un’inevitabile esplosione finale che però è talmente prevedibile che anche i protagonisti, accorgendosene, non si dicono niente. Lo accettano subito. È l’inevitabile corso degli eventi. Anche in quest’ondata di realtà schiacciante, nella crudezza ineluttabile di una soggettività brutale e brutalizzata, in cui siamo totalmente coinvolti (a trovarci da una parte, o dall’altra, o osservatori incapaci come la madre o la sorella piccola), si trova un flebile residuo di umanità, in qualcosa che è stato tutto già scritto. Che forse non tutto è perduto.
Verso i titoli di coda sentiamo la fine della poesia che dà il titolo al film: dice che la rabbia che mostriamo non ci appartiene. Padre e figlia si guardano, ancora, complici, oltre il tempo, oltre la loro triste lotta. Sanno che è vero e che non sanno cosa fare oltre a ciò che sembra giusto. La violenza e i peccati dei padri tornerà mediante i figli, e questo è uno dei temi letterari più antichi del mondo; ma quanto possiamo fare col nostro senso della responsabilità per evitare che i nostri incubi si avverino?
Nicola Settis