TENET (2020), di Christopher Nolan

«How am I supposed to heal if I can’t… feel time?»
Memento

Dunque, sia dato un punto materiale, detto TENET, in movimento su un’orbita circolare e orizzontale di raggio R a una velocità angolare che segue la legge ω(t)=A√t.
Si determinino quindi: a) il modulo dell’accelerazione quando t=t₁; b) il tempo necessario al suddetto punto materiale affinché l’esperienza filmica che ne è corollario tenda a 0.
Ci si perdoni questa rara, semiseria incursione nell’ambito della fisica meccanica, ma è forte la tentazione, prontamente stroncata sul nascere dalla penuria delle nostre reminiscenze liceali, di ricorrere allo stesso programmaticamente asettico linguaggio adottato dall’ultimo esperimento affabulatorio di Christopher Nolan per rendergli pan per focaccia: al di là delle boutade e dei maldestri tentativi di esorcizzare il nostro disagio di fronte al ridimensionamento delle nostre aspettative post-COVID, c’è da capire razionalmente la minaccia che il fallimento di TENET, assurto nel frattempo a involontario portabandiera della ripresa, può rappresentare per la sopravvivenza – non solo economica – dell’industria cinematografica ad alto budget.
Non abbiamo mai fatto segreto, nonostante la tendenza snobistica diffusa tra le frange cinefile più integraliste, della nostra ammirazione per il percorso artistico del cineasta londinese e per la sua capacità di mantenere intatta una definita, coerente dimensione autoriale nella transizione dalle produzioni indipendenti degli esordi ai multimilionari progetti mainstream successivi, e anche dietro alla palese involuzione e alla smisurata ambizione che hanno contraddistinto derive pericolose come Il cavaliere oscuro – Il ritorno e Interstellar non era improbabile scorgere l’opportuno, provvidenziale processo di disintossicazione stilistica che avrebbe portato alla realizzazione di un traguardo importante e di un’azione di rinnovamento come Dunkirk.
Pia illusione, purtroppo, perché delle possibilità spalancate dai presupposti alla base della sua sortita nel genere bellico non c’è più traccia: resta la consueta, maniacale ricerca tecnologica a un passo dall’avanguardia, che negli esiti migliori dalla svolta hollywoodiana della sua carriera – Inception, in primis – si è tradotta in un’impareggiabile abilità a raccontare per immagini, ma accompagnata da quella roboante magniloquenza e da quella soffocante verbosità che hanno compromesso in maniera sempre maggiore la solidità dei suoi lavori; non viene meno quella struttura rigida e inviolabile da autentico cinema-congegno composta da norme, calcoli e postulati, ma più che a regole di un gioco fornite allo spettatore per orientarsi nella partita assomigliano a contorti grovigli di codicilli usati per rintronarlo.

“Non cercare di capire, sentilo”: è quanto, durante un briefing che puzza di dichiarazione d’intenti, viene espressamente richiesto tanto a noi, quanto al Protagonista durante il reclutamento, rivendicando – anzi, per certi versi esigendo – un approccio esperienziale alla materia e un atteggiamento che non tenga conto delle implicazioni tecnico-scientifiche ma che si lasci trasportare dal flusso torrenziale della rappresentazione.
Peccato che le premesse vengano puntualmente smentite da due problematiche in forte contraddizione con esse, ossia il tassativo, pedante ricorso a interminabili sequenze espositive (comunque di scarso aiuto ai fini della comprensione dell’intreccio) e l’incisività limitata dell’apparato visivo, talmente incentrato sull’impiego e sul narcisistico sfoggio dell’effetto pratico da disinteressarsi dell’efficacia e dell’impressività della conclusione, così determinato a suscitare istantaneo sbalordimento da non preoccuparsi della più persistente sensazione di meraviglia.
Non che la macchinosità del plot sia di per sé un difetto, anzi, è spesso una componente inalienabile di quel filone spionistico cui TENET, pur non aderendo categoricamente ai suoi codici, mostra di rifarsi nella stessa misura subliminale in cui, sostanzialmente, Inception applicava all’immaginario hi-tech le fondamenta di Topkapi: è molto più difficile rimanerne avvinti e accoglierne le complessità, però, quando il nostro intermediario non è, secondo il modello hitchcockiano da Il prigioniero di Amsterdam in giù, un individuo catapultato in balia di eventi tra cui districarsi, bensì il più imperturbabile e impassibile degli eroi – cui certo non giova un interprete tragicamente monocorde e privo di carisma come John David Washington. Più che un personaggio, una variabile algebrica al servizio del racconto con cui è impossibile entrare in empatia.
Che il fattore umano, nel cinema di Nolan, ammonti a poco più di una serie di pedine da disporre su una scacchiera non è certo una novità, e infatti qualunque tentativo di addentrarsi in territorio emotivo, tirando in ballo amicizia virile, amore materno e cupio dissolvi, cade regolarmente nel vuoto o nel ridicolo involontario; quello che stupisce, semmai, è l’attrito tra gli ingranaggi del film, la scelta (non si sa quanto consapevole) di imbastire un impianto come al solito geometrico, ma più che mai sghembo, forzatamente esatto ma disorganico, scrupolosamente quantificato ma frammentario, attento a rispettare la tempistica e la mitologia del canone bondiano tradizionale, sovvertendone però le finalità. Dal minifilm introduttivo autonomo che in realtà già confonde le acque alle istruzioni del quartermaster che, come detto, si invitano inutilmente ad ignorare, alla proliferazione delle location (inutile, se non ai fini della mera esibizione, ed equiparabile alla schematica successione degli stage di un videogioco), fino all’elemento femminile di supporto, rigorosamente de-erotizzato (l’elegantissima Elizabeth Debicki, a dir poco mortificata dal ruolo). Per non parlare del villain con aspirazioni omnicide portate al parossismo, che si vorrebbe come un incrocio fra la disperata solitudine di Mr. Arkadin e l’oscura onnipotenza del dottor Mabuse, ma che, anche per colpa di un Kenneth Branagh insoffribilmente caricaturale, finisce per approssimarsi, al massimo, agli antagonisti più incolori dell’era Moore.

Che il ciclo di 007 appartenga al bagaglio cinefilo dell’autore di The Prestige sin dall’infanzia è fatto stranoto quanto l’irresolubile tira e molla fra lui e la Eon Productions per vederlo finalmente al timone di un episodio della saga, ma nel frattempo il panorama blockbuster è andato incontro a drastiche metamorfosi, dovute innanzitutto all’influenza, positiva o negativa che sia, esercitata proprio dal regista britannico sul modo di intendere nell’ultimo decennio il cinema di consumo: come la proverbiale montagna che va da Maometto, è stato quindi James Bond (e con lui Mission: Impossible, il DC Extended Universe, Star Trek e in generale quasi tutto l’action contemporaneo) ad avvicinarsi a Christopher Nolan piuttosto che viceversa, a conformarsi al suo gigantismo produttivo, alla sua cronica seriosità e alla sua artificiosa freddezza.
Non siamo, pertanto, davanti a ciò che è stato frettolosamente ribattezzato come “lo 007 di Nolan”, ma, in un corto circuito che sfocia nell’autoparodia, nella rielaborazione di quell’emulazione di cui sopra, nella copia dozzinale di una copia dozzinale in cui imitatore e imitato arrivano a coincidere, in una confusione sul piano della forma e dei registri anche più grave di quella dei contenuti. Ne fanno le spese le tre macrosezioni che costituiscono il clou dei tre blocchi in cui è ripartita la storia, ossia l’operazione in aeroporto, il colpo in autostrada e il blitz nella città chiusa, incentrate su una messa in scena meticolosamente orchestrata – con tanto di vero Boeing 747 fatto esplodere sul set – che non ha reso necessari ulteriori interventi in CGI ma che, nei risultati, appaiono goffe e appesantite, quando non scarsamente discernibili, anche per via di un montaggio convulso – opera non del solito Lee Smith, ma di quella Jennifer Lame da anni al fianco di Noah Baumbach –  che privilegia il frammento alla visione di insieme. Il che non aiuta, soprattutto quando si moltiplicano i livelli narrativi e le prospettive.
Si giunge dunque presto al punto di saturazione e a un senso di stordimento che disinnescano ogni possibile stupefazione al cospetto di tanta inventiva, che è qualcosa di assai differente dalla creatività, nello stesso modo in cui un film freddo e controllato è cosa ben diversa da un film arido e distaccato come questo. Nell’incongruo connubio fra il virtuosismo tecnico di Michael Mann e la poesia dell’incomprensibile di Shane Carruth, dai quali Nolan sembra aver mutuato soltanto, mal interpretandoli, rispettivamente il perfezionismo e l’arzigogolo, ogni tanto affiorano il mestiere e la misura, come nel prologo all’Opera di Kiev che evoca la Crisi del Teatro Dubrovka (l’episodio più lineare, ma anche quello più spettacolarmente godibile) o nell’esplicito, toccante congedo a Michael Caine, che fa da trait d’union con la tradizione della spy story d’Oltremanica che lo vide più volte nei panni dell’agente Harry Palmer e che, alla soglia dei novant’anni, pare sancire la fine del loro lungo, ininterrotto sodalizio professionale.
Ma sono solo attimi di funzionamento all’interno di un giocattolo inceppato, compromesso da dialoghi che non riescono in alcun modo a essere all’altezza e dal proprio ostentato meccanismo a vista: il resto è gelida coordinazione, il sogno futuristico di un presente che non interessa, la diligente esecuzione di un’impresa monumentale fine a se stessa in cui la perfetta palindromia del Quadrato del Sator è poco più che un pretesto, un gioco superficiale dal quale distribuire nomi ai personaggi e titoli ai film
Se TENET non sarà I cancelli del cielo del terzo millennio e rischierà, nel peggiore dei casi, di essere soltanto il Blackhat del suo autore, sarà principalmente grazie alla curiosità della massa di vedere l’ultimo film di Christopher Nolan, al desiderio del pubblico più o meno fidelizzato di tornare a popolare la sala e alla forzata, misericordiosa mancanza di concorrenza: però ha senso esultare per una vittoria pilotata o per un gol a porta vuota quando lo stato delle cose è questo?

Andrea Bosco