Il vincitore della Settimana della Critica è Temporada de Caza, un film su di un conflitto generazionale, visto dagli occhi del protagonista Nahuel principalmente attraverso il rapporto con il padre effettivo, cacciatore, e suo padre putativo. In una sezione colma di titoli interessanti, su tutti Les Garçons Sauvages e poco sotto Il cratere, la vittoria di un film difettoso come quello della regista argentina Natalia Garagiola, classe ’82, è decisamente indicativa, più che altro per una questione di tendenze del cinema d’autore odierno. Anche perché il film non è che sia un’atrocità insalvabile, e in un certo senso il suo posto nella sezione SIC, a prescindere dal premio assegnato dal pubblico, è pienamente giustificato, nel bene, dall’approccio generale di tutta l’opera. Che sia chiaro sin da subito che il problema radicato in Temporada de Caza sta più nella sua esistenza che nella sua esecuzione: la regia di per sé non commette errori, riesce sempre a seguire lo sguardo che deve essere seguito, in un magma emotivo che mette sempre Nahuel in primo piano a partire dal suo relazionarsi alienato con l’altro, sfoggiando un’armonia tra recitazione realistica e scrittura fluida che certi pezzi di cinema con lo stesso scopo o lo stesso comparto tecnico forse si sognerebbero. Ma tra parentesi videoclippare e momenti invece più lirici, la magia tende a spezzarsi, e più che uno spaccato di vita preso con un punto di vista sembra di trovarsi di fronte all’ennesima opera cinematografica basata sul giudizio del proprio fenomeno sociale, dei propri personaggi, dei propri ritmi, delle proprie immagini. In questa messa in discussione la cosa che pare mancare è il cuore, ed è qui che giunge probabilmente il problema, che possiamo definire esistenziale, dietro il fatto che il film esista: quanto può, difatti, un oggetto così archetipale, che non si sforza minimamente di essere innovativo, essere utile per il cinema? Considerando il cinema non un Dio da venerare ma semplicemente un luogo di appartenenza condivisa per determinate costituzioni artistiche, bisogna sempre considerare il suo flusso, la sua storia o, anzi, la sua storicità. Il film di formazione, o coming-of-age che dir si voglia, è un genere difficile da mettere in scena con originalità sin dalla fase di pre-produzione e scrittura, probabilmente anche perché da I 400 colpi a Boyhood è stato un po’ detto tutto quello che si poteva dire, sull’accettazione dei propri limiti e sul procedere in avanti verso la vita, eccetera.
Quest’anno, a Locarno, c’era un film italiano chiamato Gli asteroidi; superando la presunzione implicata dal titolo pseudo-fantascientifico, il film di Maccione, con un cast che includeva sia Sanguineti sia Delbono, è servito per noi anche come funzionale e precisa dimostrazione dell’imperfezione programmatica che il genere di formazione può svelare. E ciò è principalmente a causa di un uso retorico eccessivo degli stessi dogmi, al punto che la struttura cinematografica di questo discorso smette di essere un compimento archetipale e diventa direttamente uno stereotipo plastico. Temporada de Caza fugge alla retorica perché punta il proprio immaginario su di un realismo che non si esprime con le parole bensì con le immagini, o, meglio ancora, direttamente con gli sguardi, siano essi attivi o passivi, spenti o accesi, arditi o vigliacchi. La trovata sempliciotta del finale de Gli asteroidi, quella del superamento delle paure rappresentabile attraverso il protagonista in piedi su una staccionata, è qui tradotta in effetti in maniera elegante, nonostante il significato probabilmente simile: Nahuel cammina verso il fuori campo, osservandolo in maniera glaciale, come tendendo a un qualcosa che possa andare oltre la semplice narrazione del suo processo caratteriale e psicologico. Agli spettatori è lasciato lo spazio per completare quell’immagine con le proprie competenze, per cercare di capire cosa si cela dietro quello sguardo apparentemente svuotato da qualsiasi emozione ma sicuramente pieno di emozioni impenetrabili, come ci è stato dimostrato nelle due ore precedenti. Però la maturazione, pur non essendo messa in scena come un qualcosa di plastico, rimane sguazzante nella sua ambiguità come in una pozzanghera di carenza di idee, non procedendo davvero in avanti, ma rimanendo bloccata. E questo non è un blocco geniale a causa di un qualche pessimismo vagamente svelabile tra le righe o tra gli stacchi di montaggio, è un blocco strettamente legato all’assenza di un compimento, all’inconsistenza del dialogo, all’utilizzo sfrontato di modus operandi che forse non necessitano riscrittura e reinterpretazione.
La Garagiola ha scritto e diretto il film probabilmente rifacendosi a demoni e vissuti personali, e da questo punto uno sforzo d’esordio così intimo non è da insultare senza cognizione di causa. Il film, più che non riuscito, è privo di uno scopo, privo di una posizione o di uno spazio per far respirare il proprio significato – e, forse, pure il proprio significante. La cosa che più rimane nella memoria è e rimane probabilmente la sequenza d’apertura in medias res del film, che, con stacchi di montaggio velocissimi durante un’ora sportiva a scuola, si conclude con una lotta scalcagnata tra Nahuel e un amico/rivale in mezzo a un campo da calcetto. La macchina da presa corre insieme ai ragazzi e alle ragazze nel clamore della violenza a cui stanno assistendo, in un elegante e intenso climax ascendente di tensione che arriva, appunto, ai cazzotti tra ragazzini. Il che, in realtà, causa un parziale disappunto. E sotto certi punti di vista è anche una parabola che vive il film stesso: questo processo di ricezione di aspetti “maturi”, tra momenti poetici di caccia tra le nevi, campo-controcampo tra il protagonista e i due padri e tentativi di approccio sessuale-sentimentale andati in cagnara, alla fine giunge solamente a mostrare cosa se non una semplice zuffa tra due ragazzini, o meglio, un ragazzino, Nahuel, e se stesso, la vita, la contemporaneità, lo sguardo dell’altro? E siamo sicuri che sia un lavoro d’introspezione e auto-analisi e non un girare a vuoto attorno a qualcosa che è già stato detto nei capolavori del passato, e che probabilmente non necessita davvero di essere aggiornato?
Nicola Settis