TELA BRILHADORA (2015), di Julio Bressane – Moa Batsow – Bruno Safadi – Rodrigo Lima
“L’obiettivo della vita umana è raggiungere
il luogo in cui si stabilisce il collegamento tra l’uomo e la natura.“(R.W. Emerson, 1836)
“Tela brilhadora? Simile a memoria involontaria, una lettura di questo verso ci porta a un breve excursus nella lingua portoghese. Antonio Moraes e Silva pubblicò nel 1790 un grande dizionario della lingua portoghese in due volumi. Posseggo l’edizione del 1813 in due volumi. Qui incontriamo «brilhador, brilhadora» (sostantivo) = che brilla. Es. «céu brilhador», «tela brilhadora» – Eneide, libro 4, 60. Il primo traduttore portoghese dell’Eneide fu l’erudito del XVII secolo João Franco Barreto (Eneida Portuguesa-1674), autore di Micrologia camoniana (1660). Tradusse Virgilio attraverso Camoões, «tela brilahadora» è quasi un appello al poeta delle Lusiadi. Nel secolo XIX, nel 1850, il brasiliano Odorico Mendes tradusse, con energia di alto voltaggio, Omero (l’Odissea e l’Iliade) e Virgilio (l’Eneide e le Egloghe) e inventò una lingua all’interno della lingua portoghese. Il verso di Virgilio è il seguente: «et tenui telas discreverat auro» Odorico tradusse: «Áurea tela a mais fina entrelaçada» João Franco Barreto tradusse «áurea tela» con due sostantivi: «Tela brilhadora». […] In ambedue le traduzioni c’è l’idea di approssimarsi al linguaggio della grammatica, per poi, e solo poi, allontanarsene. Tradizione di un nazionalismo cosmopolita, nazionalismo perché ancorato alla lingua portoghese, cosmopolita perché aperto a tutte le mitologie. Vediamo come la traduzione di un verso, una nuova sonorità, un andare e venire attraverso la musica, attraverso la lingua lirica, estende la plasticità del significante.“
(Passaggi di Memoria, intervista di Roberto Turigliatto a Júlio Bressane – Il Manifesto, 05/08/2015)
Nella palese impossibilità del cercare di definire, a partire dal titolo, un opera come Tela Brilhadora mi sono affidato alla splendida conversazione (che potete leggere qui) tra Roberto e Júlio a Locarno, poco prima della proiezione dei quattro film. Proprio in queste parole emerge il primo elemento di confronto di questo straordinario lavoro multiplo, il rapporto della lingua, con la tela, la parola, l’immagine e con un altra lingua ancora sconosciuta, il cinema stesso. L’impossibilità della traduzione intertestuale è lo spazio naturale in cui nasce la prima immagine, il desiderio fisico della rappresentazione che, pensando alla caducità della memoria, portò al sorgere delle pitture rupestri. L’era dell’immagine necessaria, per ricordare e tramandare. La tela così sembra essere lo stesso elemento necessario a riflettere (la vita, le emozioni, il reale) e a far riflettere (la filosofia, la storia, la società). In tutto questo pare esserci il senso estremo e definitivo della possibilità fisica di ricercare un rapporto umano con la natura, con le proprie radici, che solo una nuova immagine libera e pura può definire. Ai bordi di essa rimane l’oblio, ciò che è fuori campo, l’impossibilità critica di una definizione del nostro passaggio sul pianeta terra. Quattro mo(vi)menti che partono da qui, da quando il primo uomo ha iniziato a guardare, e soprattutto quando ha iniziato a chiedersi perchè guardasse. Un viaggio lungo quasi cinque ore, nel voler continuamente riferire il battito della luce, la fenomenologia di una lingua sconosciuta che incontra tutte le lingue possibili. Júlio Bressane teorizzatore e traghettatore di questo viaggio infinito con gli altri giovani folli e sognatori Moa Batsow, Bruno Safadi, Rodrigo Lima si avventurano oltre se stessi, ossessiona(n)ti viaggiatori nell’abisso della comprensione, sapendo di potersi perdere, di poter perdere tutto. Perchè è il momento di mettere in gioco tutto, per cercare di capire, per cercare di vedere. Forse per la prima e ultima volta.
E’ lo stesso Bressane a tracciare le coordinate dell’opera, partendo ed ispirandosi da un nascosto racconto di Borges “Bill Harrigan, L’assassino disinteressato” (contenuto in “Storia universale dell’infamia“), una breve e particolarissima digressione del funambolico scrittore argentino del mito di Billy the Kid. Garroto parte dalla ridefinizione ancestrale, quasi adamitica, della violenza in un detour continuo in cui l’unica via possibile di comprensione della contemporaneità sta nel tentativo stesso di reinterpretazione della preistoria, nell’archeologia dell’umanità. Il seme della narrazione segue la vicenda di una coppia che si ritrova in un luogo incantato, paesaggio che dona loro un intensa avventura amorosa, formativa e spirituale. Ma la stessa natura umana, non può contemplare questo idillio dei sensi, così che il ragazzo uccide fuoricampo (un amica di lei, l’educatrice al sentimento – la stessa figura ed attrice di Educaçao Sentimental – ), perde l’amore e con esso il proprio senso dello stare qui. L’infinità possibilità di perdersi per poi ritrovarsi, nelle storie della Storia, dona loro ancora un estrema possibilità. In tutto ciò la simbologia appare infinita, dai disegni infantili d’apertura, alle pitture rupestri, infanzia dell’umanità (dell’arte e del cinema); la pulsione primaria della scoperta della mappatura dei propri spazi all’interno di una rigogliosissima natura, diventa il peso dell’atto del male, che schiaccia sotto i monoliti della storia. Quel peso dell’impossibilità di redenzione del peccato universale e pagano della scoperta, perchè inaridisce e allontana sempre di più dall’essenzialità della vita. Un ellisse totale che come un vortice condensa tutto, dalla realtà occulta del pensiero e del subconscio animale, alla fisicità degli elementi in cui vengono codificati i segni indecifrabili del desiderio, dell’omicidio, dell’infinito, della fuga. Molte le citazioni pittoriche che si installano sulla teoria di Warburg, nel processo intersemiotico infinito della (ri)creazione; l’occhio esotico che guarda ai grandi d’Europa, perchè la primitività necessita della coscienza dell’immaginazione che riesce a mostrare frammenti di occulto, propri del reale e della conoscenza. Allo stesso modo la splendida e ossessiva colonna sonora concreta di Guilhermo Vaz, non fa altro che ampliare dimensionalmente la costruzione spaziale del paesaggio, confondendo ed aprendo il campo all’eco, alla profondità uditiva che colpisce direttamente l’occhio. In tutto questo rumore di fondo, appare in frammenti la splendida voce di Elvira Rios, evocatrice in Ombre Rosse di John Ford, che risposta ancora una volta la tensione verso il vecchio west o forse nella completa indeterminazione. Garroto è una vulcanica massa sonora e visiva aperta a mille derive profetiche e visionarie, un magnifico sogno in atto che si ripercuote su tutto il progetto, su tutta la tela. E ne segna il destino ed il suo continuo svelamento.
Ed ecco subito il suo controcampo, l’esordio alla regia di Moa Batsow, Origem Do Mundo. Un travelling infinito che parla la lingua dell’origine del primitivismo selvaggio e abbozzato, grezzo e vivo; la cultura tradizionale, il folklore, le leggende ma soprattutto i segni ed i simboli di un passaggio. Un tuffo nel vuoto che getta uno sguardo alle origini della storia brasiliana, siamo nel Sertão di Cariri a Cabrobó, nella Paraíba dove si trova la Pedra do Pai Mateus, monolite metafisico e primigenio della cultura autoctona carioca. L’occhio è allucinato nell’osservare l’espressione preistorica che ribolle nell’entroterra brasiliano. La macchina da presa di Batsow fluttua nell’aria, fiuta le oscillazioni di energia, l’elettricità primordiale, le iscrizioni che fanno esplodere i consueti concetti di spazio e tempo. Poi la tradizione orale che rifugge ancora la parola scritta, i racconti ancestrali degli anziani abitatori di questi non luoghi, la loro angoscia sul rischio di perdere queste incisioni e pitture, come se esse fossero l’unico e ultimo strumento di riconciliazione e comprensione della loro (propria e nostra) origine. Uno spazio ed un atto da salvaguardare, dal vuoto (in)visibile dell’oblio. Il tappetto sonoro è vorticoso e urticante, disturbato e ossessivo; frammenti di note che paiono vivificare le stesse figure rosse su pietra, ridonandole un contrasto percettivo estremamente più profondo. I testi sono di Bernardo Silva Ramos, un pioniere nella scoperta e nell’interpretazione dell’arte preistorica in sudamerica. Un luogo mi(s)tico, lo stesso di Garroto, che (come dice l’esploratore Bressane) sopravvive nella continua sovrapposizione di segnali multilinguistici e di pensieri originali, uno spazioso panorama atemporale e culturale indigeno in una cartografia dettagliata, di fenomeni nel limite e dislimite di storia e preistoria. La tela si squarcia nuovamente, i frammenti sono sempre più scomposti, paiono sgorgare timide gocce di sangue da quelle pietre con iscrizioni, sopravvissute ad ere scomparse, spazio di conservazione di deviazioni, inflessioni pulsionali, energie mentali. Da millenni, memoria e immaginazione raschiano le pietre di questo luogo, ma avremo ancora occhi per poterle vedere?
Il registro cambia improvvisamente con il lavoro di Bruno Safadi, dopo la splendida trilogia su Sonia Silk (conclusasi guardacaso con O fim de uma Era), un apparente ritorno al (dis)ordine della lingua cinema. O Prefeito racconta la storia rarefatta di un futurista sindaco di Rio de Janeiro che vuole entrare nella storia, decidendo di separare la sua città dal Brasile (ma forse anche dall’umanità e dall’universo) per fondare un nuovo stato. Abbattere la civilizzazione, rilocalizzarla su nuove fondamenta e nuove prospettive idealistiche, quasi con spettri di folle lucidità pseudo-superomistica, o supersociale, revisionare un esperienza primitivista di autodeterminazione. Probabilmente l’episodio più costruito e rappresentato, Safadi gioca con il cinema, la sua lingua ed i sui linguaggi; c’è il muto, il bianco e nero, un lentissimo stop-motion, la slap-stick comedy ed il surrealismo, ma tutto pare rispostato in uno spazio ad esso non comune, di deriva dei sensi estetico-politica e di profondi simbolismi. La scrivania dove il sindaco te(rr)orizza la sua secessione pare essere collocata sotto le macerie post-apocalittiche di una società che deve ancora fare i conti con la propria stessa arcadia, deve tornare all’uomo di quelle pitture per poter trovare una propria direzione. Il legame tra questo ed i due atti/angoli precedenti della tela sta nel rapporto tra la violenza identitaria prima, ed i pittogrammi poi, raffigurati qui nella figura del sindaco che gioca con modellini di città pietrificate ricreandone una fallace identità solo per autoaffermazione e redenzione da un passato di perdizione. Sembra una intelligente critica socio-politica del Brasile che è, e che sarà (basti a pensare alle Olimpiadi del 2016), ma le mani sulla città del prefeito, non hanno considerato il cuore. Anche il nostro surreale sindaco rimane ostaggio di una figura femminile, che in tutta la Tela si riverbera continuamente, è travolto da una donna al limite tra l’amore di gioventù e l’angelo custode, che lo accompagna con la sua pozione magica dallo sbandamento fino alla presa del potere. Ma quando l’ascesa politica ed umana del prefeito si conclude, lei lo abbandona e lui viene travolto nuovamente dal sentimento atavico dell’oblio. Cammina tra la folla che una volta adorava, ma che ora a stento lo riconosce, la secessione si è compiuta ma anche dentro lui stesso. Guardando la camera non resta che autogettarsi una colata di cemento. Il terzo angolo della tela appare più smussato nella architettura di forme arrotondate fatte dall’acqua e dal vento ed ora rifratte continuamente in un contesto urbano disumanizzato, in cui tutto ciò pare ardere continuamente. Uno spazio in cui si prova costante il bisogno di memoria, di realtà, di sogni, per affrancarsi da una nuova possibile schiavitù, per ritrovare una libertà.
L’ultimo atto è affidato ad un altro esordio quello di Rodrigo Lima, con il suo sognante ed onirico O Espelho, un adattamento dell’omonimo racconto di Machado de Assis. Entriamo immediatamente nella soggettiva di un ragazzo misteriosamente chiamato al cancello di una casa di campagna abbandonata. Esplora lo spazio, ed in quel momento inizia anche a collimare con una temporalità alterata; è un altro garroto spaesato attratto dalla scoperta estatica ed innamorato della perdizione dei sensi. A fondo campo una donna emerge dal fango in un lago, quasi fosse rispecchiata da un letto d’acqua, una figura mitologica ed eterea. Si avvicina dolcemente a lui, che timidamente le va incontro, consapevole di entrare nel vortice di un incantesimo. C’è l’incanto dell’allucinazione, della memoria e dei sogni, c’è la sperimentazione di una foresta dispersa di immagini inaccessibili. In questo scarto il film diventa personalissimo, laddove in Assis l’acqua era ancora la memoria del mondo, qui i suoi riflessi rivelano segreti nascosti nella natura dell’anima. Compaiono frammenti in 8 e 16mm, bozze di immagini, filmini amatoriali della stessa infanzia di Lima; come fotogrammi placentari e primordiali di rappresentazione che nelle loro continue rifrazioni generano la vita, ecco lo scrigno (in)accessibile della durata che probabilmente solo la natura può far riscoprire, come una continua epifania di attimi estinti. E’ proprio la natura e la sua circolarità a compenetrare il mondo ed il suo spirito, un continuo afflato panico che con il suo flusso avvolge il senso delle cose; ancora una volta in questa Tela, ha l’iconografia della donna che (come in Cocteau) sboccia dall’acqua e può appartenere all’uomo solamente in forma di riflesso e di ricordo. Ecco la natura cosmica, che dallo scheletro geologico e sociale della storia, giunge alle percezioni iniziali dell’uomo, del sentimento dello scorrere del tempo, della divinazione del fenomeno vegetale. La casa delle memorie che serra i suoi cancelli pare essere l’ideale conclusione dell’opera, i ragazzi di Garroto e quelli di O Espelho immersi in una foresta dell’Eden in continua battaglia di fango e di verde, forse per riscrivere il mondo, forse per fuggire a se stessa. Come qui non mai si mostra questa metafisica del fantastico strutturata sull’arcaica filosofia della natura; solo rimettendo in discussione tutto si può riconferire densità alla materia. Quattro esploratori continuamente a rischio di sparire all’interno di questa cosmologia, eternamente costretti a filmare una realtà parallela per non perdersi definitivamente nel vuoto della tela (dell’universo). Ma qual’è lo spazio ancora possibile da percorrere tra la comprensione e lo svelamento?
Ammesso, e non concesso, che il cinema sia il regno assoluto dell’inspiegabile, è nelle ferite della vita che trova il suo respiro più ampio. Tela Brilhadora pulsa nel cuore di questo spazio sommerso, nelle fratture calde del nostro cuore, di coloro che continuamente fuggono dal tempo che la vita stessa gli ha riservato. Quasi come se fosse un enorme rivendicazione del vedere, di tutte le possibilità che esso implica sull’esistenza dell’atto, dell’azione. L’idea di fuga e di erranza erotica in un luogo, del vedere del (soprav)vivere di segni, continuamente evocati in noi, che non ci abbandonano, immobilizzando e prolungando la durata. La percezione dirompente di questi quattro film abbraccia le enormi possibilità che rimangono da esplorare prima del baratro del vuoto, del nulla. Una resistenza, o forse la sua simmetrica impossibilità, dell’amarsi incondizionatamente e del lasciarsi perdere nel proprio specchio di fantasmi inascoltati e incomprensibili se non da noi stessi. La tela diventa lo spazio bianco in cui siamo liberissimi di interpretare tutto ciò, un opera che noi stessi contribuiamo nello svolgere, solo con l’atto del nostro guardo, con il tentativo folle della comprensione del mistero, del particolare, dell’invisibile. Anche se la perdizione è li, così vicina, nel rapporto embrionale con il nostro essere, può ancore definire la fisicità dell’immagine, nell’assenza di una parola; il fotogramma si fa espiazione di una vita immortale, nel gioco dei fantasmi che ci parlano dell’eterno. Tutto all’interno di questa tela è definito dal complesso rapporto tra suolo e pensiero, tra segni indecifrabili e simboli in perpetua migrazione, perchè il presente è eternamente annullato in un nuovo rapporto indeterminabile tra passato e futuro, il senso estremo di una natura cosmica donato a noi, così piccoli ed incapsulati. Le prime nostre percezioni saranno probabilmente le stesse nostre ultime, solo il movimento perpetuo (ancora una volta della vita come del cinema) ci insegna che l’essenziale è invisibile, e solo il frammento dell’origine della vita può indicare la porta d’accesso verso lo sconosciuto. E può anche dirci quando quella porta si potrebbe chiudere per sempre. Il suo suono, quell’omicidio dell’umanità sulla terra (lo stesso di Garroto), scompaginerà il divenire, sostituirà il paesaggio, muterà l’esistenza maledicendo l’anima atratta il cielo, verso il sogno. Ma lo stesso passaggio dell’uomo su questa terra resterà infinito nella sovrapposizione continua di elementi creativi ed immaginifici che risiedono nella scoperta e nella memoria. L’acqua li riflette (O Espelho), il vento li scolpisce (Origem do Mundo) e il fuoco li cementifica corrodendoli (O Prefeito). La vita continuerà, nella sua primitiva cosmologia della dispersione.
Ma Tela Brilhadora è anche un altro straordinario esempio di linguaggi, di forma politica, di ridefinizione continua dello strumento cinema. Più di quarant’anni sono passati dalla folle “Bel Air” quel terremoto clandestino creativo e produttivo che coinvolse lo stesso Bressane con il compianto Rogerio Sganzerla ed Helena Ignez. Allora in pochi mesi vennero girati sei film, ed abbozzato un settimo, nella più assoluta libertà artistica e nella militanza di compartecipazioni tra amici, autori, uomini e donne che donarono tutto per quella causa. L’esperienza, pur magnifica e potentissima, durò poco ma la sua memoria e il suo impeto vulcanico ed iconoclasta pare proprio essere la chiave di lettura necessaria per comprendere questa ultima follia. Ora Bressane lavora con i suoi collaboratori più recenti, a ruoli intercambiabili in una nuova frontiera di lavoro collettivo, rispettando e probabilmente evolvendo le individualità stesse degli autori. Il percorso è unico, unito da un profondo sentimento comunitario di comprensione del reale, e di lavoro sul linguaggio. Un atteggiamento così profondamente radicale sul cinema, non può non prescindere da una stessa ridiscussione dei supporti, tecnica quanto filosofica. Per Bressane Educaçao Sentimental appariva quasi come l’ultimo atto d’amore verso la pellicola, qui invece l’uso del digitale pare modulare prospettive assolutamente originali. Il passaggio dalla trasparenza all’opacità, pare essere un espressione filosofica conseguente alla conversione. Il soggettivo (del soggetto), la dinamica della percezione rivoluzionata dalla verifica immediata e tentatrice, anche se è sempre l’involontario a modulare la materia di creazione di quel rettangolo di realtà che è l’inquadratura. Ciò che giustifica ogni immagine di Tela Brilhadora sta sempre all’esterno dell’immagine stessa, così che è il controcampo stesso a donare il senso al campo. Circumnavigare una scena per rendere giustizia all’atto stesso del girarsi di un film, attratto ed abbandonato al montaggio, doppiamente passato ed eternamente provvisorio nella sua (in)finitezza. L’immagine stessa ci viene restituita (per essere conservata) come un oggetto magico ed abbagliante, una messa in visione dalle infinite prospettive, un fiume visionario e in movimento continuo che trascorre e sborda, straripa e si sprofonda, che delinea visibilmente un invisibile (dis)limite. Ma forse dopo tutto questo fiume di parole solo quelle dello stesso Bressane possono porre fine a questo tentativo di vedere dentro a questo schermo: “Tela Brilhadora è un esperimento, un’anamnesi cinematografica, che strappa e divide il soggetto autore, facendolo transitare da un passaggio a un altro passaggio, da un frammento a un altro frammento, da un margine a un altro margine: un altro margine che lo conduce al dislimite.“
P.s. Su questa splendida frase mi sento di ringraziare profondamente un po’ di amici: Julio e Rosa, Bruno e Rodrigo con cui mi sono confrontato più volte in questi giorni dandomi la possibilità, ed indicandomi il percorso, per il tentativo di decifrare quest’opera; e poi Roberto e Lorenzo che coraggiosamente questo film lo hanno voluto a Locarno ed alle loro interviste e scritti in cui ho attinto per cercare di raccontarvi in qualche modo questo lavoro così complesso. Infine ringrazio personalmente queste quasi cinque ore estreme di una straordinaria potenza anarchica, di somma libertà e profondissimo amore. Sono giunti al termine così anche i titoli di coda, di questo viaggio nel viaggio. Il proiettore si spegne, la tela oramai resta bianca, trafitta dalle luci della sala, come forse dovevano rimanere questi fogli entrambi strappati.
Ma, almeno per chi scrive, questo è ancora il momento di riveder e rivivere continuamente un esperienza così indefinibile, in attesa ancora di un segnale universale che possa rivelare la natura umana, di una risposta che non possa che non essere un altra domanda, in cui rituffarci. Tutti insieme, oltrepassando il dislimite, nella brillantezza malinconica di un fotogramma e nella fallibilità romantica dell’uomo. Perché infondo la possibilità estrema di definire lo spazio di questa tela, non è altro che lo spaesamento. Ed ecco la pratica dell’incantamento magico, tra la parola e l’immagine, tra il cinema e la vita. Ed ecco l’uomo, finalmente.
Erik Negro