TCHEKHOV À BEYROUTH (2016), di Carlos Chahine
Lo sguardo di Carlos Chahine verso il Libano è quello dell’esule, fuggito a Parigi nel ’75 dalla madre patria allo scoppio della guerra, e tornato gradualmente a casa solo attraverso la sua arte, prima in veste di attore per Ghassan Salhab e ora anche in quella di regista, teatrale e cinematografico. Tchekhov à Beyrouth, la sua opera seconda presentata al Torino Film Festival in TFFdoc, è in questo senso un percorso personale prima ancora che artistico, un ritorno a casa per mettere in scena proprio nel cuore di quel Libano che aveva dovuto abbandonare giovanissimo, adattandola dalla più grande drammaturgia, la propria città, le proprie radici e le proprie riflessioni anche dolorose, fra chi vorrebbe fuggire alla povertà e chi vorrebbe rimanere in ogni caso per poter cambiare il proprio Paese con il proprio lavoro e con i propri ideali. Tchekhov à Beyrouth è la seconda parte di un progetto ambiziosissimo e tripartito che, dopo più di cinque anni passati a tradurre in arabo l’opera ultima del drammaturgo russo Anton Čeckov Il giardino dei ciliegi ri-plasmandola sulla Storia del Libano e di Beirut in modo che l’aristocrazia russa dell’inizio del XX secolo diventasse una messa in scena della fine del feudalesimo nel Paese e degli anni d’infanzia del regista, ha previsto la messa in scena a teatro, la realizzazione di questo documentario come via di mezzo fra un backstage e una riflessione profonda sul senso stesso di questa rappresentazione, e che successivamente prevederà di trasformare l’opera già applaudita sul palcoscenico in un lungometraggio di finzione.
La bellezza decadente della città da sempre culla di diverse culture è il primo vero protagonista di Tchekhov à Beyrouth. È una Beirut che vive e brulica nel suo dedalo di vie e di tetti, nelle sue foglie cadute e mai raccolte, nelle sue finestre spaziose, nelle sue campagne, nel suo cuore pulsante, nei suoi scorci che, passando per i diversi stili architettonici e per qualche pezzo di tetto ancora mancante, finiscono quasi inevitabilmente nella profondità forse infinita del mar Mediterraneo. È una Beirut che vive e che ancora soffre nella sua Storia, tormentata e sublime, violenta e ineluttabile, che dal colonialismo è passata alla guerra civile e poi agli scontri frontali con Israele, e che ancora oggi annaspa nella scia di dolore delle Primavere arabe con gli sconfinamenti sul territorio del conflitto siriano. Quella di Beirut è una Storia che inevitabilmente si incrocia con la storia di una famiglia di esuli, quella del regista, costretta all’emigrazione in Europa dalle circostanze, ma che mai ha dimenticato il fascino drammatico dei luoghi dove per la prima volta ha visto la luce. Il ritorno a Beirut è la vecchia casa: un appartamento vuoto e abbandonato; sopravvissuto, sì, ma a quale prezzo? Carlos Chahine torna in Libano per mettersi su un palcoscenico e parlare, non solo fra le righe, del proprio abisso e dei propri orizzonti, portando in dote la propria personale rielaborazione di Čeckov e della sua opera ultima, in un progetto ambizioso e complesso la cui natura non può che ricordare, stili a parte, i discorsi e le modalità più volte affrontate dalle opere di Jean-Marie Straub e Danielle Huilliet. L’immagine, la parola, la fisicità degli attori, le forme narrative e di rappresentazione, la Storia, la memoria: tutto si rincorre, si somma, si modifica, si ricontesualizza per farsi politica e umanità, sguardo, sensibilità. Un grido soffuso.
Non è certo casuale la scelta de Il giardino dei ciliegi, per portare Čeckov a Beirut. A partire dalla curiosa genesi dell’opera stessa, pensata da Čeckov come una commedia ma messa in scena da Stanislavskij, già nella prima rappresentazione, con le forme della tragedia. È una dicotomia insita nella sua natura, con cui i registi si sono sempre dovuti rapportare nel corso degli anni scegliendo una via oppure l’altra, oppure tentando di far coesistere i due registri; è una dicotomia che ora Chahine sfrutta per suggerire come il suo rapporto con la terra natia sia un continuo passaggio da un registro all’altro, un rapporto in chiaroscuro fra affetto e trauma, fra ricordi che riaffiorano e a volte fanno sorridere, ma che molto più spesso fanno male. E la scelta dell’ultimo Čeckov non è casuale nemmeno per tematiche – aristocrazia, servitù e feudalesimo, così vicine ai continui cambi di alleanze della guerra civile che ha falcidiato il Libano dal ’75 al ’90, fino alla dolorosa distruzione di quel giardino degli innamorati che non sarebbe stato da vendere a nessun costo, e che ora giace come Beirut, bella e ferita, amata e abbandonata. Già nel 2008, nel suo cortometraggio d’esordio alla regia La route du Nord in cui interpretava il ritorno in Libano di un emigrato per trasferire le spoglie del padre morto in guerra, Carlos Chahine aveva trasposto sullo schermo la vita dell’esule, il cui ritorno, fisico e simbolico, diventa ora con Tchekhov à Beyrouth una personalizzazione ancora più profonda, intima, dolorosa. Nel corso dei 50 minuti del documentario, Chahine dà istruzioni agli attori, filma le prove, si mette personalmente sul palco e riguarda le performance per capire dove ci sia da lavorare per migliorare, essere più credibile, più puntuale, più acuto. Ma, nel frattempo, vaga per la città e per i sobborghi a piedi e in auto, incontra persone, riscopre Beirut e riscopre se stesso, la propria famiglia, la drammaticità delle decisioni, il proprio universo straziato e mai davvero rimosso. E mentre sul palco si provano tradimenti, lacrime e stravolgimenti sociali, subito a lato i rapporti personali si cementano, si parla di ieri e di oggi, di fughe e di lotte, di dignità e di memoria, di Storia e di appartenenza. Fino agli applausi finali, gli inchini e il sipario, in attesa che arrivi anche il film di finzione promesso a chiudere l’interessantissimo discorso intrapreso.
Marco Romagna