LA MOGLIE DI TCHAIKOVSKY (2022), di Kirill Serebrennikov
Nemmeno la morte può far arrendere un’ossessione troppo bruciante. Per scacciare l’odiatissima moglie Antonina Ivanovna Miljukova dalla sua camera ardente deve necessariamente alzarsi dal suo letto di morte direttamente Pëtr Il’ič Tchaikovsky, già conscio che probabilmente nemmeno il suo fantasma potrà davvero fermare il suo sentirsi perseguitato, con ancora un funerale e un cimitero in cui essere tormentato da un amore incapace di accettare il suo rifiuto, la sua evidente e dichiarata (in privato) omosessualità, l’evidente incompatibilità caratteriale, le sue male parole, e ora il suo trapasso. Ma non è solo per questa esplicita apparizione spettrale che Tchaikovsky’s wife, ritorno finalmente di persona del dissidente russo Kirill Serebrennikov a Cannes dopo il visto negato ai tempi di Summer e l’ingiusta detenzione (costruendogli sopra una pretestuosa falsa accusa per appropriazione indebita, ma in realtà un po’ per la sua omosessualità e un po’ per le sue posizioni antiputiniane) che lo scorso anno lo aveva tenuto lontano dalla prima di Petrov’s flu, è prima di tutto un film di fantasmi. Nel dramma livido e dolorosissimo di Tchaikovsky’s wife, in Italia letteralmente La moglie di Tchaikovsky, tutti sono fantasmi, a loro volta insistentemente perseguitati da altri fantasmi, da altri assilli martellanti, da altre voragini di cupezza e ossessione senza possibile via d’uscita. È un fantasma Tchaikovsky, come si diceva, che entra in scena già morto e che da quel momento rimarrà (come la sua musica, perché non c’è quasi spazio per la musica nell’inferno di vita e di morte messo in scena da Serebrennikov) sempre ai margini del fuori campo. Un uomo attratto dagli uomini e mai in vita da una donna, che mette sin da subito in chiaro con la spasimante di non avere il benché minimo desiderio carnale né sentimentale, ma che dopo le ripetute insistenze e lettere d’amore in cui lei giura e spergiura ricca dote e accudimento eterno decide di accettare il matrimonio di facciata, che ben presto si rivelerà disastroso, con cui mettere a tacere le voci sulla propria omosessualità. Ma è un fantasma anche la moglie Antonina su cui il film concentra lo sguardo, non certo la folle invasata incapace di mollare la presa che i primi storici hanno dipinto, ma un’anima frastagliata e fragilissima, tenace e irremovibile nel suo amore impossibile e mai realmente consumato verso chi, non interessato e di indole iraconda, finirà ben presto per non sopportare né lei né i suoi periodici ripresentarsi. È un fantasma la sua venerazione che diventa sentimento oscuro, tossico e maniaco per l’uomo (e non per il compositore, del quale ammette candidamente di non conoscere né fama né opere) Tchaikovsky, da amare e «idolatrare» fino a oltre la spirale (auto)distruttiva, da inseguire fino a oltre la tomba come una necessità irrefrenabile. È un fantasma il di lei avvocato e successivamente amante destinato a morire di peste senza più poterla nemmeno sfiorare per non contagiarla, per tutta la vita un corpo che accetta di essere una seconda scelta, un panchinaro, un passatempo mai amato nemmeno un minuto. Ed è un fantasma pure la Mosca putrida e melmosa in cui tutti gli altri fantasmi si muovono, vivono e muoiono. Una città oscura e impenetrabile di anime in pena e di angoli di strada costantemente affollati di esseri umani laidi e mostruosi, di donne come oggetti che appartengono (e anzi vogliono appartenere) ai loro uomini e di squallidi appartamenti in cui sopravvivere. Del resto anche l’Ottocento, nei suoi ultimi decenni, era ancora in corso eppure già un fantasma. Un secolo che stava nemmeno troppo lentamente declinando e morendo, del quale ben presto sarebbero sopravvissuti quasi solo gli spartiti.
È per questo che in La moglie di Tchaikovsky, una volta tanto, i dialoghi caotici in cui da sempre i personaggi si parlano addosso e gli elaborati movimenti di macchina da sempre cifra stilistica di Kirill Serebrennikov, il suo insistito flirtare con i linguaggi di teatro e videoclip, con i punti di vista e con i pianisequenza, sembrano finalmente trovare un senso differente rispetto alla bizzarria autoriale tanto riconoscibile quanto spesso pacchiana e gratuita che rovinava Summer e rendeva Petrov’s flu ai limiti del guazzabuglio irricevibile, ponendosi come una consapevole babele di contrastanti assilli interiori con cui mettere apertamente in dialogo la realtà e la visione allucinata, il realismo e la sua distorsione, i sentimenti e la loro antitesi. Uno stile ossessivo con cui scavare nell’ossessione (non solo) della protagonista, con cui nemmeno troppo metaforicamente ricrearla, con cui trasmetterla e farla in qualche modo vivere allo spettatore. Poi sì, alla strabordante visionarietà dell’autore non corrisponde in sceneggiatura uno spessore dei personaggi e delle loro derive psicologiche altrettanto profondo, ed è questo il principale limite del film di Serebrennikov – l’altro, molto più prosaico, è quello di una durata eccessiva nelle sue stiracchiate due ore e mezza, non certo prive di ripetizioni concettuali e di qualche svolazzo ad appesantire. Eppure questa volta lo stile vertiginoso del regista russo ‘funziona’, affascina nel suo tentativo di tradurre il disordine interiore in immagini altrettanto nervose e contorte, in pianisequenza che non smettono mai di perdersi, in soluzioni narrative che scartano all’improvviso verso l’onirico e poi tornano indietro, in consapevoli scavalcamenti di campo e in robusti salti temporali avanti e indietro in una storia che non è di (non) amore e di (non) desiderio ma che è di qualcos’altro, più oscuro, più cupo, più malato, e forse proprio per questo ancora più inafferrabile. Quel motivo per cui Antonina, magnificamente incarnata dalla ventiseienne Alyona Mikhailova, non può accettare l’omosessualità e il completo disinteresse – quando non (ancora) la repulsione e il disprezzo – di Tchaikovsky, ma è convinta fino all’ultimo e forse anche oltre di riuscire prima o poi a conquistarlo, a sedurlo, a vivere fino in fondo il suo infinito e inesauribile amore. Nemmeno spogliarsi in preda al desiderio e vederlo ritrarsi e fuggire orripilato riuscirà a farle fare i conti con la realtà, nemmeno essere malamente scacciata prima dalla casa e poi dalle aule del conservatorio, e nemmeno vederlo sfiorire in una prigione coniugale che è per lui, ma in realtà per entrambi, «un funerale ben più che un matrimonio»: Tchaikovsky ormai sempre più nervoso e incapace di comporre, sempre più povero (con tanto di dote non così semplice da ottenere) e usurato da un matrimonio senza amore né desiderio, e Antonina altrettanto insoddisfatta e infelice, rifiutata senza eccezioni dal marito e costretta a consolare i propri desideri con altri uomini che non ama, depressa al punto di abbandonare per sempre il pianoforte e sempre più vittima di se stessa e del suo amore ossessivo, unidirezionale e nocivo per entrambi. Eppure Antonina non concederà mai il divorzio, tanto meno in una società iniqua, omofoba, retrograda e patriarcale in cui l’unica via sarebbe stata l’ammissione pubblica di adulterio. Una società che Serebrennikov mette apertamente alla berlina, trascinandola nel baratro di oscurità e allucinazione della storia sbagliata che mette in scena fra chiese, case, strade, aule di tribunale e salotti buoni in cui scegliere (fra) sei cazzi al vento. Una società da cui non resta che alienarsi, annullandola per lasciare definitivamente spazio al sogno, all’utopia, al cammino che diventa danza. Una coreografia di corpi nudi che sembra cercare un’ultima impossibile riconciliazione nel riportare al centro la carne e l’illusione, il desiderio e la speranza. Eppure se li si guarda meglio sono anche loro semplicemente dei fantasmi. Gli ennesimi.
Marco Romagna