TAXI MONAMOUR (2024), di Ciro De Caro
Sembra di quasi di riabbracciare una vecchia amica (in)aspettatamente riemersa dal fondo del mare, nell’incontro con le tenere nevrosi, con la dolce cocciutaggine, con le soavi paranoie e con la testa un po’ fra le nuvole, ma anche e soprattutto con le emozioni più vibranti e con la più profonda empatia umana, della Anna protagonista di Taxi Monamour. Del resto, nel cinema sempre più ambizioso, stratificato, maturo e consapevole di un Ciro De Caro che dopo avere trovato definitivamente la quadratura del suo cerchio con Giulia alza ulteriormente l’asticella con questa sua straordinaria opera quarta, ancora una volta così puramente di finzione eppure così meravigliosamente documentaristica nell’immaginare le sue vicende partendo e sempre girando intorno alla verità, antropologica e caratteriale, delle persone scelte per interpretare i personaggi prima ancora che i personaggi esistessero, sia la precedente Giulia sia questa Anna nient’altro possono essere che vere e proprie reincarnazioni della musa, co-sceneggiatrice e ovviamente interprete Rosa Palasciano, così autentica, spontanea ed emozionante sulla scena proprio perché – sullo schermo come nella vita, a partire dal suo presentarsi sul palco delle Giornate degli Autori di Venezia81 per il Q&A di fine proiezione scalza e con le scarpe col tacco in mano – sempre e comunque intimamente se stessa. Con le proprie fragilità, con il proprio carattere, con le proprie reazioni più istintive, con il proprio cuore. Sicuramente disposta a esacerbare per esigenze narrative qualche personale caratteristica e spigolosità, qualche personale ossessione e qualche personale fissazione, eppure forse proprio per questo ancora più cristallina nel suo porsi vero, vibrante, totalmente sincero. Una sincerità assoluta di tutti gli interpreti primari e secondari, spesso attori non professionisti ma amici o produttori (Gianluca Arcopinto gestore del bar, Laurentina Guidotti madre di Anna…) rigorosamente da ricercarsi fra le conoscenze personali di Ciro De Caro e Rosa Palasciano che li pensano e li scrivono su di loro e per loro, che è ancora una volta il principale motore del cinema del regista romano, per alcuni versi apparentemente assimilabile a quello di Jonas Carpignano, della coppia Silvia Luzi/Luca Bellino o ancora di Alessandro Cassigoli e Casey Kauffman, e invece totalmente differente in sfumature uniche e personalissime che lo rendono semmai più prossimo ai “saggi di recitazione e regia” secondo Cassavetes, o ancora alla contemporaneità rumena dei vari Jude, Puiu, Mungiu e Porumboiu. Un cinema che è al tempo stesso commedia e tragedia, gioia e malinconia, verità e finzione, sogno e inquietudine. Un cinema di osservazione e rielaborazione, fatto di invisibili pianisequenza e di jump-cut temporali che ellissano la stessa inquadratura e magari proprio al momento del climax staccano su tutt’altro, di nervosi (ma non per questo meno eleganti) primi piani e di appassionati pedinamenti in macchina a mano, di camera car dal sedile posteriore e di straordinari cambi di fuoco con cui passare da un punto di vista all’altro. Ma soprattutto un cinema di totale vicinanza empatica della macchina da presa ai suoi protagonisti, in cui può bastare il sapore di un piatto etnico per trovare la sintonia e per far mettere da parte il dolore, può bastare un telefono che suona, può bastare un passaggio da accettare o da offrire, può bastare una battuta di spirito, può bastare un gesto quasi impercettibile, può bastare un regalo, può bastare uno sguardo d’intesa. Può bastare un’increspatura del mare con cui giocare a schizzarsi felici, mentre Taxi Monamour parte da due differenti parabole di solitudine e conflitto, anche bellico, per delineare nel loro intrecciarsi per poi separarsi le traiettorie della nascita di una reciprocità tanto breve quanto intensissima, di una crescente fiducia, di un inaspettato affetto, di un’amicizia apparentemente impossibile e invece destinata a cambiare forse per sempre, o per lo meno per un po’, le vite, le percezioni e le decisioni delle due protagoniste.
Nasce tutto da un incontro, prima totalmente casuale a una fermata dell’autobus e poi progressivamente sempre più intimo e commovente nella caduta di ogni barriera (linguistica, culturale, personale, emotiva) verso almeno un istante di reale e spensierata libertà. Fra passaggi e inviti a pranzo magari non del tutto convinti ma non per questo meno provvidenziali, fra l’iniziale sospettoso respingersi e poi finalmente imparare ad aprirsi con fiducia all’altra, fra una gita al mare a cui non si può rinunciare nemmeno con la patente scaduta e una sagra paesana in cui finalmente riuscire, su La Javanaise di Serge Gainsbourg, ad accettare l’invito a ballare insieme e ad abbracciarsi senza più remore. Una serie di chiavi di volta senza che debba realmente “succedere” quasi nulla, attraverso cui De Caro mette in scena la nascita, al tempo stesso dolorosa e soave, di un amore puro e totalmente disinteressato, scollegato dal desiderio e dalla sessualità perché fatto del semplice trasporto emotivo fra esseri umani talmente differenti da scoprirsi in definitiva uguali, che passerà per l’emergere di un’inattesa corrispondenza di sensi, per l’aiutarsi vicendevolmente ad aiutare il prossimo a costo di farsi cacciare di casa, per Dragostea Din Tei che esplode a una festa nella sua cittadinanza “sbagliata”, e per una casa che non a caso proviene direttamente dagli affetti (e dal cinema, essendo l’abitazione di Cerveteri in cui Ciro De Caro e Rosa Palasciano avevano scritto Giulia) del passato. Ma soprattutto per tematiche gigantesche come la solitudine, la guerra o una terribile malattia tenuta nascosta (quando non proprio inaffrontata) per non scaricare sulla famiglia e su un amore temporaneamente lontano la propria preoccupazione, messe però in scena in totale sottrazione, costantemente presenti nella vita quotidiana eppure relegate con levità e delicatezza verso i margini del campo fino quasi a non nominarle, mentre a prendersi la scena è l’atto dolcissimo e inestimabile di guardarsi e di riconoscersi, di vincere ogni ritrosia e ogni imbarazzo, e definitivamente di imparare ad accettarsi l’un l’altra, a supportarsi a vicenda, a compiere almeno un tratto del percorso di vita – poco importa quanto lungo, quello che conta è la profondità del rapporto – non più da sole ma finalmente insieme. Fino alla strabordante potenza espressiva di un finale semplicemente magnifico, al contempo sublime e straziante, in quell’ultimo saluto con la mano da dietro i rispettivi parabrezza mentre gli occhi si faranno lucidi e le strade non potranno fare altro che naturalmente separarsi. Da una parte l’italiana Anna, con l’inevitabile angoscia per il suo tumore e con la sua famiglia numerosa e tutto sommato unita ma nella quale è pressoché impossibile comunicare o anche solo smettere di essere costantemente messi in minoranza fra due fratelli opposti e una madre ipocondriaca e ingombrante, e dall’altra l’ucraina Nadja fuggita dagli zii in Italia all’inizio della guerra ma sin da subito intenzionata a tornare nella sua Kiev, tanto diffidente e insoddisfatta della sua nuova vita in terra straniera da non dire inizialmente nemmeno il suo nome vero preferendo lasciarsi chiamare Cristi, inventato di sana pianta da Anna per uscire da una situazione potenzialmente spinosa e poi rimastole attaccato come un gioco, come uno scudo, come il sogno di una nuova via di fuga. Solo una fra le infinite intuizioni di una scrittura sopraffina, tanto dei personaggi quanto dei dialoghi e delle situazioni, in una commedia drammatica al femminile capace di affrontare anche la tragedia con un sorriso, con una luce in fondo agli occhi che vale più di mille parole, con una nuova situazione paradossale in cui ritrovarsi al termine di una notte insonne di paranoie e di insicurezze a devastare nel bagno l’acconciatura di un fratello che rivendica i suoi dolori d’infanzia nel disinteresse di famiglia, oppure nella casa di una coppia di zii ucraini a ballare insieme danze popolari slave. Per lo meno fino al successivo malore con cui il dolore fisico ed esistenziale a più riprese presenta nuovamente il proprio conto, perché non si può fare semplicemente finta che il male non esista, ma è sicuramente più facile sopravvivergli sapendo di poter contare, da qualche parte, su una spalla a cui appoggiarsi. Il resto, già a partire dalla visita iniziale agli occhi, è semplicemente una questione di sguardo, quello di crescente intesa e fiducia fra le protagoniste di Taxi Monamour e quello raro e umanissimo del regista che le mette in scena, tanto netto e discreto nello sporgersi sulle periferie romane fatte di differenti minoranze etnico-culturali e di un sottoproletariato che tenta di guadagnarsi da vivere servendo nei bar o assistendo anziani sconosciuti malati, quanto poetico e libero nel delineare le prospettive e le parabole di Anna e di Cristi/Nadja dalla più cupa e nevrotica depressione alienata alla consapevolezza, all’autodeterminazione, al coraggio delle scelte, al loro rinascere emotivo rispecchiandosi dolcemente l’una nell’altra. A un film apparentemente semplice e invece estremamente stratificato e prezioso, con cui Ciro De Caro, da talentuosa promessa in sempre più evidente crescita, e ben al di là di quell’umiltà senza la quale probabilmente non sarebbe nemmeno possibile concepire il suo cinema così delicato nel guardare alla vita per poi entrarci in punta di piedi, sembra avere compiuto il balzo decisivo per assurgere definitivamente allo status di grande autore, di gran lunga fra i più interessanti dell’Italia contemporanea.
Marco Romagna