TARDES DE SOLEDAD (2024), di Albert Serra
Sta tutto nel fondo degli occhi. Quelli del toro, quelli del torero, quelli del suo staff di picadores e banderilleros che lo adulano e lo proteggono, quelli del pubblico che si esalta per il gesto e per la lotta, per il duello e per l’ardore, per la grazia e per la morte – dell’uno o dell’altro. O forse gli occhi sono semplicemente quelli del regista, che attraverso l’occhio-altro meccanico e iperdefinito della macchina da presa annulla e schiaccia ogni distanza, vede e mostra quel dettaglio che il nudo occhio umano non può scorgere, e magari lascia deliberatamente fuori dal campo quello che invece sarebbe ben visibile ma che non ha senso guardare. Quello che contano sono gli occhi che si incrociano in una sfida che è un vero e proprio rito fuori dal tempo, come una liturgia sacra e(ppure) profana, antichissima quanto barbara, amata, odiata e protetta come patrimonio nazionale, che per una mera questione di centimetri ogni volta potrebbe essere l’ultima, e che anzi per qualcuno, umano o bovino che sia, lo è (quasi) necessariamente: fa parte dello spettacolo. Una danza sanguinaria e brutale fra la vita e la morte, in una ricerca spasmodica della perfezione e della grazia, della performance e della creatività, della sopravvivenza e dell’estetica. Di una nuova declinazione del potere, quello dato dal coraggio di combattere con un animale rabbioso fino alla licenza di ucciderlo – con tanto di continui riferimenti machisti a virilità e supposte dimensioni degli attributi dell’eroe – che inevitabilmente si specchia e forse si contrappone a quello dato dall’atto di scegliere che cosa far vedere (e sentire) a chi guarda, sedotto e insieme respinto in quello stato di ipnosi indotta sempre vera e al contempo sempre menzognera che è il cinema. Un potere che è negli occhi, un potere che è degli occhi. Da una parte quelli di Albert Serra, impegnato con Tardes de soledad nel suo «primo e ultimo documentario» che, non a caso, osserva e ascolta ma si guarda bene dallo spiegare alcunché, e anzi apertamente nel suo insistito e personalissimo guardare (e montare) controlla e in qualche modo manipola la realtà riplasmandola in puro cinema, in propria visione, in proprio racconto (o non-racconto), in proprio linguaggio, fra l’impietosa precisione dei teleobiettivi impegnati ad annullare la spazialità nei primissimi piani e il deflagrare improvviso dei Jefferson Airplane o del Valse triste di Sibelius fra un discorso di fronte e uno alle spalle. Ma anche in propria posizione, fra il fascino e la repulsione, fra l’estetica irresistibile del gesto (del torero, del regista) e una scarsa simpatia nei confronti della corrida mai urlata, ma anzi intelligentemente ambigua, da trovare in filigrana nel sangue, in una lingua che penzola esausta, nella brutalità umana contrapposta alla paradossale umanità nel fondo degli occhi – ancora loro – di un toro che esala i suoi ultimi respiri. Dall’altra quelli di Andrés Roca Rey, matador peruviano classe ‘96 che le arene spagnole (e forse ancor di più Serra che ne fa quasi una figura cristologica, con quella ferita vicino all’inguine che sin dall’inizio non si rimargina, per quanto il torero sia inizialmente rimasto insoddisfatto del film al punto da aver minacciato di bloccarlo con vie legali) stanno sempre più rapidamente consegnando alla leggenda. Occhi che cercano di farsi più taurini e feroci di quelli dei tori, concentrati, minacciosi, di comando, di controllo, ma anche colti nell’unico loro momento di reale paura e smarrimento, messo al muro e incastrato fra le corna dell’animale, solo per caso rimasto illeso anziché trafitto ma subito pronto a ricominciare nel delirio del pubblico. Come a dire che questo potere “oculare”, della tauromachia così come dello schermo, è come sempre in Albert Serra necessariamente fine a se stesso, inutile, effimero, apparente, solo di facciata, destinato a girare a vuoto per poi ritornare sempre al punto di partenza e all’infinita reiterazione. Perché ci sarà sempre un nuovo toro (o una nuova opera d’arte) da affrontare, così come c’era sempre un’altra onda (e un’altra non-risposta, e forse qualcosa nel mare) in Pacifiction, nello stesso modo in cui lo spettro della fine che aleggiava negli ultimi respiri di Casanova (Història de la meva mort) e del Re Sole (La mort de Louis XIV) non aveva mai smesso di incombere su ogni libertinaggio sifilitico e rigorosamente privo d’orgasmi di Liberté.
Del resto anche quello delle corride, celebrazione liturgica dell’atto della violenza e della morte, è di per sé un mondo già ampiamente affacciato sulla propria morte, da una parte difeso con le unghie e con i denti come patrimonio culturale, e dall’altro costantemente sotto attacco da parte dei tanti che lo vorrebbero definitivamente eliminare e che forse prima o poi riusciranno nel loro intento. In ogni caso un mondo inevitabilmente in dissoluzione, l’ennesimo nel cinema di Serra, tanto profondamente attaccato al passato, alle radici, al rituale, alla tradizione secolare, spesso all’ereditarietà del mestiere (e dei costumi di scena da insanguinare) trasmesso dai padri ai figli generazione dopo generazione, da potere in qualche modo essere già guardato retrospettivamente come un qualcosa di ancora presente eppure ingabbiato nella Storia, non contestualizzabile nella contemporaneità e forse nemmeno realmente comprensibile al di là del suo fascino sciamanico e metafisico, del suo essere al contempo rito e violenza, danza e morte, leggiadria e sangue, concretezza (della vita e della morte) e astrazione (del gesto). Realtà e(ppure) finzione, intrinseca di ogni spettacolo e di ogni dinamica di potere e impotenza; finzione (o per lo meno esibizione) e(ppure) realtà (magari bruciante come il costante rischio di rimanere ucciso), a ribadire in una variazione sul tema (questa volta documentaria semplicemente perché reperita in un ben preciso ambito del vero senza bisogno di ricostruirlo) quelle che da sempre sono le ossessioni e le riflessioni alla base del cinema di corpi, di ritualità e di morte, ma anche di improvvisazioni di attori letteralmente teleguidati via auricolare e di maschere al contempo divinizzate e tragiche da far loro incarnare in tutta l’ambiguità, dell’autore catalano. È per questo che in Tardes de soledad, per chi non avesse dimestichezza con le fasi delle corride, solo alla lunga e con il ripetersi delle medesime dinamiche un toro dopo l’altro è possibile intuire le regole di divisione in terzi e i ruoli degli uomini impegnati nelle tauromachie, in quali momenti si usa la capote de brega e in quali altri la muleta, a che cosa servano i cavalli e quali siano le prerogative dei vari pedoni, ed è per questo che di Andrés Roca Rey vengono lasciati del tutto fuori campo il passato e le origini, preferendo al contrario delineare una figura enigmatica che, fra le arene, gli alberghi e l’unica inquadratura sui suoi spostamenti in auto con tutto lo staff, sembra direttamente estrapolata dall’epica degli eroi, o forse direttamente dalla santità. Con i suoi vestiti settecenteschi ornati d’oro, la cui percezione contemporanea va paradossalmente verso un kitsch ben più vicino alle paillettes dei pride LGBTQIA+ che alla tanto decantata virilità mascolina e machista del matador «con due palle così» mostrato mentre si sistema il membro sotto le tutine aderenti. Con la sacralità della sua vestizione e svestizione (scomodissimo) strato dopo (scomodissimo) strato, necessariamente affidata alle mani dei valletti perché impossibile da completare da soli, e accompagnata da infiniti segni della croce. Con i rosari e le icone votive dell’uno e dell’altro Santo a cui affida ogni volta il proprio corpo e la propria anima, perfettamente consapevole che ogni corrida potrebbe essere quella dei fatidici tre metri di terreno. Un uomo costantemente circondato da persone, dal maggiordomo alla sua squadra di toreri fino al pubblico mai inquadrato ma che costantemente si sente accalcato sugli spalti in visibilio per l’ennesima schivata, eppure sempre ineluttabilmente solo di fronte al pericolo e alla morte. Basterebbe un minimo errore di calcolo, basterebbe un’imperfezione nei tempi e negli spazi, basterebbe un fuori campo. Basterebbe sbattere le palpebre, forse. Toro dopo toro, giorno dopo giorno, arena dopo arena, nel procedere di quei pomeriggi di solitudine, come da traduzione letterale del titolo di questo nuovo e straordinario (capo)lavoro di Albert Serra ri-presentato a Milano al Filmmaker 2024 dopo la vittoria della Concha de Oro a San Sebastián e il primo passaggio italiano ai Popoli di Firenze, in cui lottare, esaltare, vincere, uccidere e forse morire, e auspicabilmente conquistare in premio orecchie bovine da lanciare nelle plazas de toros più importanti di Spagna mentre vengono portate via le carcasse. Pomeriggi di tecnica, di attesa, di talento, di liturgia, di reiterazione, di perfezione del gesto, di vera e propria ricerca estetica della violenza. Di vestizioni, di corride, di riflessioni dopo il successo sui piccoli errori e sui troppi rischi presi – «faremo meglio la prossima volta», come già nel finale di La mort de Louis XIV. Ma anche di sospensione – del fiato, del tempo, del linguaggio, del campo e del fuori campo, dello spettacolo, delle immagini, dello slancio artistico, del visibile, dell’invisibile, della vita – nell’incrocio degli occhi e degli sguardi, umani, bovini e meccanici, che ripetutamente esercitano il proprio potere di osservare, di combattere, di uccidere e magari di morire. Pomeriggi affollati della solitudine di un potere temporaneo, fugace, instabile, dove l’acclamazione dell’eroe vittorioso e l’incornata pronta a dargli la morte distano magari solo pochi millimetri, e dove il meraviglioso e l’osceno si possono tranquillamente sovrapporre nella stessa immagine, e dialogare (per non dire combattere) apertamente fra loro. Pomeriggi affollati dalla solitudine di una spasmodica ricerca della bellezza, del superamento dei propri limiti, della definitiva compiutezza. Del colpo di spada perfetto con cui finire immediatamente l’animale, che non a caso arriverà solo all’ultimo dopo una serie di uccisioni riuscite ma non con la medesima precisione, così come della potenza espressiva che emerge perfetta dalla cura estetica di chi lo filma e lo restituisce in immagini, in una magnifica ‘ossessionata’ coincidenza dell’atto artistico del toreare con l’atto artistico dell’osservarlo.
Marco Romagna