La prima inquadratura di Tár, presentato nel Concorso principale della 79esima edizione del festival del cinema di Venezia e poi in prima tedesca alla 73ma Berlinale, ci mostra la protagonista eponima, la direttrice d’orchestra Lydia Tár (Cate Blanchett, che per questo film ha imparato a parlare tedesco e a suonare il pianoforte), in piano americano, pronta a salire sul palco per un’intervista. Nel suo volto scavato, occhi serrati, esercizi di respirazione e un paio di tic nevrotici, ma un assoluto autocontrollo, è evidente una persona che sa cosa sta facendo, o perlomeno crede di saperlo; e vuole mostrarlo, è la sua facciata. Quando si ritrova a esporre i suoi successi, la sua voce sa perfettamente cosa dire, e salta di palo in frasca in excursus sulla musica classica e sulla sua vita professionale/culturale, in cui non si sente un attimo né insicurezza nel tono né incertezza nel contenuto. La sua assistente Francesca (Noémie Merlant) è dietro le quinte, che sottovoce controlla che il testo della presentazione e delle domande dell’intervistatore siano quelle pianificate, e sa già perfettamente cosa dirà, come lo dirà; è tutto telecomandato, non c’è margine di errore. L’intervista stessa è già stata “diretta” prima che cominciasse. Questa prima sequenza nell’auditorium si apre e chiude con la nuca di una donna che non si vede in volto, una testimone silenziosa, consapevole della messinscena nella realtà. Il suo anonimato è chiave: noi, pubblico, all’inizio siamo lei, e scopriamo Lydia con uno sguardo vergine, come se fosse un personaggio reale, una celebrità che conosciamo da sempre e in cui crediamo da subito, che si fa vanto di una serie di traguardi raggiunti e ambizioni d’irraggiungibilità. Ma la “donna della nuca” non è un personaggio inesistente, quanto uno di cui non vediamo mai il volto, ma che poi durante il film conosceremo bene per sentito dire: è la rossa Krysta, che Tár ha scartato tra i suoi pupilli che ambivano a dirigere orchestre come la mentore, e che si è suicidata come conseguenza. Il punto di vista adoperato dalla macchina da presa durante il terzo lungometraggio di Todd Field sembra spesso quello di un fantasma (appunto, Krysta?) che segue la protagonista come una maledizione, cercando il suo tormento, traendo dalla Schadenfreude un ritratto lirico di una forma di potere sottile; quella di un’artista che, nella sua pretenziosità, abusa dei mezzi che ha a disposizione per ‘cavarsela sempre’, e poi rimanere schiacciata dallo sguardo degli altri verso di lei. E spesso non se ne rende conto. Il tempo passa, e con esso cambiano le percezioni degli altri verso Tár e di lei verso se stessa, e il potere sembra cambiare verso e direzione. Ma in ciò, non c’è certezza. Le scene si susseguono come se stessimo passando attraverso una galleria fotografica, vedendo uno alla volta frammenti sconnessi di una vita fittizia uno alla volta, che insieme, alla fine, montati, trovano una coerenza, un inizio e una fine, una prassi. Ogni scena dialoga con quella prima e con quella dopo non con una consequenzialità quanto con un realismo vitale, tramite piccoli gesti o brevi frasi, ché ogni cosa che facciamo, ogni azione soggettiva, ci caratterizza ed è stampata per sempre nel tempo. L’individualista altoborghese Tár progressivamente smette di rappresentare una dea scesa in terra della musica classica e del formalismo, e diventa evidente che è un essere umano fallace al servizio di sé e solo sé. Da simulacro diventa maschera decadente.
Field è un regista peculiare. Divenuto famoso in USA da adolescente per aver sviluppato un marchio di gomma da masticare per giocatori di baseball, ha una formazione da musicista ma poi si dedica alla recitazione e lavora, tra gli altri, con Stanley Kubrick, per il quale interpreta il pianista Nick che porta Tom Cruise al misterioso rituale orgiastico centrale in Eyes Wide Shut. A inizio anni 2000, esortato da vari tra cui Kubrick stesso, esordisce alla regia, e nel giro di poco scrive e dirige due lungometraggi (entrambi tratti da romanzi), di successo all’epoca ma già mezzi dimenticati adesso, In the bedroom e Little children; entrambi sono melodrammi sulla vita di provincia in America, che, con un rigore formale che solitamente caratterizza gli autori più navigati, raccontano e caratterizzano personaggi archetipici con l’opposto di ciò che il pubblico si aspetta. In the bedroom è un film monolitico la cui trama è trascinata avanti dall’attesa di un momento di esitazione o di rimorso da parte dei suoi protagonisti (che non arriva mai, soppiantato da una violenza gelida), mentre il più ironico Little children è un dramma scabroso e gotico su pedofilia e relazioni illecite, i cui protagonisti agiscono in base all’impulso finché l’idiozia delle loro azioni da sola funge da freno per la loro passioni. Nei 16 anni che intercorrono tra Little children e Tár, Field ha provato a entrare in vari progetti, ma alla fine sono stati tutti scartati o girati da altri. Se In the bedroom e Little children sono evidentemente film della stessa matrice (un cinema indipendente americano che cerca di immagazzinare la New Hollywood e il cinema classico in un tutt’uno), non si può dire lo stesso di questo suo nuovo sforzo; Tár è un film alieno che cerca il più possibile di non dialogare con altri, ma solo di monologare, di costruire, distruggere, e poi ricostruire, brancolando nell’oscurità insieme ai suoi spettatori. Ci ha ricordato, sicuramente per caso, il recente France di Dumont, che pure ha una protagonista femminile “coperta” in immagini per quasi tutto il film – entrambi si chiamano come le loro protagoniste, ed entrambi i registi strutturano il punto di vista della storia in una serie di campo-controcampo, la protagonista che dialoga e guarda ciò che non è lei, e l’immagine che guarda la protagonista, come se non ci fosse verso di scappare dalla sua soggettività, che finisce per intaccare la visione del mondo. Lei-mondo, mondo-lei, lei che reagisce al mondo, il mondo che reagisce a lei. Capiamo la disgrazia e il cinismo di France perché France è plastico e cinico, se lei reagisce anempaticamente a qualcosa il film reagisce di conseguenza; egualmente, Tár è un film lirico, quadrato e sicuro di sé, formale, preciso ed elegante, lento e disteso, ma il cui montaggio accelera con sottigliezza nel corso delle sue quasi tre ore di durata, e il cui mondo esterno viene mostrato sempre un poco più rispetto alla protagonista, fino al movimento di macchina finale che si sposta da lei per andare sui suoi spettatori, dimenticandocela, tornando alla nostra realtà assurda, finché non ci rendiamo conto che l’intera realtà del film è distorta perché capiamo che in quel mondo è lei il motore, e lei vive in un dispersivo regime di parziale cecità: Tár è un personaggio che richiede una forma narrativa fatta di distrazioni e depistaggi, di cinema contemplativo europeo e di cinema americano, di istanze giudicanti ed exploit universali. Tutto è incertezza, un’oscillazione sinusoidale, ritmica, un metronomo che va inesorabile verso l’oblìo.
La scena chiave del film è una delle prime, piano sequenza in cui Tár è in aula a insegnare il mestiere del direttore d’orchestra a una giovane persona, con un costante tic alla gamba, che ha un rifiuto verso J.S. Bach in quanto maschio bianco etero cis misogino. Lei lo provoca, cercando di dargli un punto di vista più superiore e distaccato rispetto alle cose, ma nel farlo lo umilia di fronte a tutta la classe, riprovando una nuova, totalmente sua forma di privilegio, imposizione, potere. Il mondo che lei ha cercato di minimizzare è lo stesso che lei subisce da quel momento in poi, come in un flusso karmico o in una progressione fiabesca con la morale della legge del taglione. Ma questo mondo non è fatto di certezze, nello sguardo del film – o meglio, in quello di Field, che si adegua allo sguardo del personaggio Tár senza creare una totale immedesimazione –, bensì di sali e scendi, di domanda e risposta, in un ingorgo dialettico in cui «le domande sono ciò che ti trascina», come dice lei stessa nella succitata scena di lezione universitaria. Ed è questo che la struttura del film rende perfettamente, una cadenza drammaturgica che sfida la temporalità, fino a un epilogo decadente che sembra incitare alla nascita di un «nuovo mondo», di una realtà di un dopo raffazzonato e grottesco, una realtà futura in costume, fino ai titoli di coda scanditi da una moderna musica elettronica trap che esplicita una discordanza con l’onnipresente Mahler. Tra sogni distorti e inquietudini irrisolte, Tár è un film sul trionfo dell’indifferenza, e per l’autore Todd Field un cambiamento che comporta un adagiarsi sulle contemporaneità, su un’estetizzazione catatonica e misantropa lontana dall’umanizzazione grottesca delle realtà intimo-famigliari dei primi due lungometraggi. Così facendo, il regista forse si allontana da una concezione realmente emotiva del personaggio che ha scritto e di cui si è innamorato, perlopiù concentrandosi su una rappresentazione sempre parziale (ma sempre affascinante) della sua visione della realtà mentre la realtà si piega su di lei. Anche Little children, a oggi il suo capolavoro, strabordava ed esagerava, ma lo faceva in funzione di esplorare l’interiorità di personaggi altrimenti spesso impenetrabili; ciò in Tár si dimostra perlopiù con un’opprimente ambiguità, che spezza e distorce il senso etico del racconto, al punto che più conosciamo il personaggio meno conosciamo il film e il mondo privo di calore umano che esso propone. È una spirale di indubbio carisma, che sa di incompiuto, di scettico, un mistero senza mistero, un incubo che non sembra un incubo.
Nicola Settis