TANNA (2015), di Bentley Dean e Martin Butler
Capita spesso, nel vorticoso rutilare delle logiche festivaliere, che parte dei film più interessanti provenga dalle sezioni laterali. Film pronti a emergere da un immeritato cono d’ombra, mentre buona parte dei riflettori sono puntati sul Concorso, sulle star in passerella, sulle cinematografie più note e quindi percepite come sicure. La Settimana Internazionale della Critica, giunta quest’anno alla trentesima edizione, è una sezione indipendente della Mostra di Venezia che da sempre si prodiga nella ricerca di opere prime e film delle nazionalità più disparate. Non è quindi un caso che venga presentato proprio in questa sezione Tanna, primo lungometraggio – ma si potrebbe dire primo audiovisivo – nella storia delle Isole Vanuatu. Girato, appunto, nella vulcanica isola Tanna del titolo utilizzando come interpreti le tribù indigene, il film è in realtà piuttosto semplice nelle linee di trama – un coming of age pronto a declinare la tragedia Romeo e Giulietta in salsa esotica -, ma si pone sin da subito come documento etnografico di fondamentale importanza, capace di contestualizzare gli intenti narrativi in una rispettosa documentazione degli usi e costumi di una civiltà aborigena ancora tribale e precolombiana.
Il risultato è un ibrido vitale e fortemente lirico fra melodramma e documentario, capace di rimanere fedele ai propri intenti narrativi senza dimenticare di fotografare con occhio lucidamente antropologico una civiltà rimasta impermeabile all’occidentalizzazione, dove la vita scorre da secoli fra i boschi rigogliosi, le scogliere a picco sul mare e la bocca di fuoco del vulcano Tukosmerail. Ed è proprio nella morfologia isolana che il film trova i propri maggiori lirismi, dove la sconfinata bellezza di un luogo vergine e paradisiaco assurge a storia, tra le eruzioni notturne portatrici di morte, il placido scorrere del fiume sotto lo sguardo dei teneri amanti e le corse nella foresta per annunciare con l’ancestrale ingenuità di una bambina che il nonno è stato colpito. I due registi rimangono fedeli al proprio passato da documentaristi, inserendo la tenera storia d’amore tragico in un contesto geografico e sociale fatto di regole proprie, sorta di simbiosi fra uomo e natura nella quale la narrazione si innesta tenera e discreta, funzionale agli intenti antropologici ed etnografici. Dai costumi tradizionali alle dinamiche fra le tribù, dalla guerra ai matrimoni combinati, dai riti di iniziazione al profondo legame con la propria terra vulcanica, la popolazione si mette al contempo in scena e a nudo, rivelando un’inaspettata espressività dinanzi alla macchina da presa.
Su queste premesse, il duo di registi innesta elementi di fiction che si dimostrano solidi, funzionali e mai pretestuosi, che prendono le mosse dal passaggio della giovane Wawa all’età adulta per raccontare una storia di vero amore nell’ottusità di una civiltà che non riesce a concepirlo. Ma non ci sono intenti giudicanti o accusatori, non ci sono connotazioni morali: nella tradizione secolare che viene mostrata, non c’è spazio per buoni o cattivi. Ci sono solo le circostanze, un modo di vivere immutato e forse immutabile, un senso della giustizia che potrebbe apparire a noi occidentali forse esotico, strambo, magari distorto, ma rappresentato con disarmante sincerità. La passione ricambiata di Wawa nei confronti di Dain, figlio del capotribù, viene minata dalla decisione della famiglia di darla in sposa al figlio del capotribù rivale, per garantire alle due comunità vicine la fine di una frattura bellicosa e sanguinolenta. Ma i due amanti non vogliono sottostare alle regole centenarie, lanciandosi in una fuga d’amore della quale solo un tragico e shakesperiano epilogo potrà essere il finale. Di fronte alla focosa bellezza dei lapilli incandescenti, Wawa e Dain si lanceranno nell’ultimo e definitivo atto d’amore, unico modo per stare insieme in eterno e per smuovere la mentalità di una civiltà affascinante quanto difficile al cambiamento.
Empatico e fedele, descrittivo ma mai didascalico, Tanna si rivela quasi a sorpresa fra le visioni più interessanti di una Mostra partita in sordina, ma capace di crescere esponenzialmente nella seconda parte. Il conflitto generazionale viene trattato con il rispetto dovuto ad una civiltà antica e lontana, la narrazione scorre senza particolari guizzi ma fluida e funzionale all’apporto più prettamente etnografico, la storia d’amore è tenera e sincera, gli indigeni protagonisti sprizzano una profonda vitalità emozionale ed emozionante. Quello di Bentley Dean e Martin Butler è un esordio forse non impeccabile – qua e là nella sceneggiatura si possono trovare alcune forzature didascaliche – ma a conti fatti prezioso, meritatamente trionfatore alla SIC. Una visione che ci porteremo dentro a lungo, ben oltre la simpatia sprizzata a pelle dagli aborigeni giunti con i loro costumi tradizionali minimali a colorare il Lido di un respiro che viene da un mondo lontano.
Marco Romagna