No re, c’aveva poco penziero,
cresce no polece granne quano no crastato,
lo quale fatto scortecare,
offere la figlia pe premmio a chi ne conosce la pella.
N’uerco la sente a l’adore e se piglia la prencepessa:
ma da sette figli de ne vecchia
con autetante prove è liberata.
G.B. Basile, Lo cunto de li cunti – Lo polece
Un rutilante mondo fatto di saltimbanchi, stregoni, draghi, orchi et indovini. Matteo Garrone, in concorso a Cannes e nelle sale italiane con Tale of Tales – Il racconto dei racconti, dimostra un coraggio fuori dal comune, compiendo uno scarto nella propria filmografia in grado di porsi, sin dalle primissime battute, come un probabile punto di non ritorno. Garrone è sempre stato un lucido osservatore della realtà: la macchina da presa in spalla, lo stile asciutto e di sublime rigore pittorico, la partenza dal documentario per, gradualmente, giungere ad una fiction quasi neorealista nell’uso di ambienti veri, attori non professionisti o quasi, troupe ridotta, fatti di cronaca come ispirazione. Da Terra di Mezzo fino a Primo Amore, passando per lo splendido L’imbalsamatore, Garrone ha focalizzato il proprio cinema sull’incertezza del vivere, sulla frustrazione esistenziale, sulla difficoltà nel combattere per tirare avanti. Fino a Gomorra, il Grand Prix a Cannes, il successo, e il secondo Grand Prix con (il meno riuscito) Reality.
Temeva evidentemente di rimanere invischiato nel suo cinema, Garrone. Temeva di ritrovarsi bloccato nello stile essenziale, ingabbiato nel suo microcosmo fatto di piccole quotidiane sconfitte. E ha deciso di cambiare strada, radicalmente, da Reality a fantasy, dal neorealismo alla fiaba. Una svolta netta, per un film interessante e coraggioso, a budget molto più alto, in inglese, tuffo in un genere quasi inesplorato nella storia del cinema italiano e non a caso pienamente internazionale per produzione e cast. Un film senza dubbio da difendere, ma, lo diciamo subito, che non è riuscito a convincerci fino in fondo. Con Tale of Tales, liberamente ispirato da tre episodi –Lo Polece, La Cerva Fatata e La Vecchia Scortecata– tratti dalla prima giornata de Lo cunto de li cunti di Gian Battista Basile, Garrone abbandona la periferia italiana per catapultarci nel secentesco mondo di corte. Un mondo fatato, nel quale tutto è possibile, un mondo fatto di sovrani capricciosi, negromanti, cuori di drago da mangiare per concepire e partorire un figlio in una sola notte, ringiovanimenti magici e pulci grandi più di un lupo.
Nel corso dei tre episodi, intrecciati ma totalmente indipendenti, il regista italiano -non dimentico della propria impronta sociopolitica- sfrutta le fiabe di Basile per disegnare un buon affresco sulla brama e sulle derive a cui il potere porta. Tutti bramano, nel film. Bramano ricchezze, affetti, apparenze, sesso e possesso. La regina sterile disposta a perdere il marito pur di avere un figlio, e successivamente a morire lei stessa pur di separare, in ottemperanza alla classe sociale, due metà inseparabili; il re incapace di provare reali sentimenti nei confronti della figlia perché troppo impegnato a crescere una pulce; l’altro sovrano, spietato maniaco sessuale; l’anziana disposta a farsi scorticare a morte per invidia e avidità nei confronti della sorella ringiovanita da un incantesimo: il potere porta inevitabilmente alla deriva e all’aberrazione, questo in Basile come adesso in Garrone. Ma non manca il riscatto, e la principessa coraggiosa diventa regina. È, anzi, proprio a livello di sottotesti che il film trova la sua maggiore compiutezza, e un finale sul filo infuocato dispiega Garrone in tutta la sua classe.
Piuttosto, le riserve sono sull’agio del regista nel muoversi nel genere: la narrazione procede per accumulo, dimostrando una grande maestria visiva che però non sempre si muove su tempi filmici all’altezza. Se la prima parte è infatti decisamente troppo veloce e sbrigativa, con un incipit che dovrebbe durare almeno il doppio -compreso un drago dormiente ucciso in maniera piuttosto vigliacca-, il film rallenta fino quasi a ristagnare in una parte centrale di sola presentazione dei personaggi, per poi ripartire verso la fine, ma in netto ritardo. La triplice narrazione, già di per sé caotica per la totale indipendenza dei tre filoni, soffre della costante ricerca di una trovata che non sempre arriva: l’immaginario di Garrone, proteso per la prima volta verso il fantastico, si dimostra non sempre all’altezza, finendo per mancare di originalità e facendo a tratti quasi il verso a Game of Thrones, serie HBO citata da Garrone stesso nelle note di regia.
Ma questi difettucci formali saremmo anche disposti a perdonarglieli, di fronte al tentativo ripartire dalla fiaba per rifondare un cinema italiano di genere, del quale eravamo maestri e di cui abbiamo ormai quasi perduto le tracce. Il vero problema del film è un altro: fra le pieghe dei tre episodi si avverte, drammatica, una freddezza che onestamente da Garrone non ci aspettavamo. Dov’è finita la sua lucidità nello scandagliare l’animo umano? Che fine ha fatto l’umanità dell’autore? Dove sono i sentimenti, quello sguardo umido catturato quasi per caso, quella vicinanza fisica del regista, e del suo occhio-obiettivo, all’azione? In una parola: dov’è la vita? Matteo Garrone è fra i pochi registi che si è sempre messo personalmente dietro alla macchina da presa, nei suoi lavori precedenti. E la sua vicinanza fisica agli attori, sullo schermo, è sempre risultata un valore aggiunto del film. Complice la prematura scomparsa del fido direttore della fotografia Marco Onorato, Garrone si affida a Peter Suschitzky, storico collaboratore di Cronenberg: il risultato è spettacolare, indubbiamente anni luce sopra la media del cinema italiano, ma l’utilizzo di un operatore di macchina e di tanta steadycam allontana il regista dagli attori e dal loro “atlante sentimentale”. Si sente, pur nell’ammirazione per un cambio di rotta talmente sfacciato da essere lodevole, la mancanza di quella vicinanza, di quello sguardo che aveva reso Garrone, nella definizione di Quentin Tarantino, “l’ultimo grande neorealista”. Si sente la mancanza di un cuore, di un’anima, di un respiro. Si sente la mancanza di Matteo Garrone. E il film, che vorrebbe meravigliare e trasportare nel sogno, non arriva in profondità, non tocca. Tale of Tales è un film ostinatamente coraggioso, senza dubbio interessante e visionario, un prodotto da difendere in quanto luce in un cinema, quello italiano, agonizzante in un baratro sempre più profondo. Un tentativo sicuramente da apprezzare, ma pur sempre un prodotto imperfetto. Rimangono nel cuore le sequenze nei labirinti, come pure la costante tensione alla pittura di Goya e Velàzquez, ma non è scattata quella scintilla che sarebbe stato lecito aspettarsi: a Tale of Tales, al netto del coraggio, della passione e dei nobili intenti, mancano il cuore, il sangue e l’anima. E ci dispiace molto per questo. Ma a questo punto attendiamo il prossimo film di Matteo Garrone con ansia forse ancora maggiore, sperando che trovi finalmente il giusto punto sintesi fra le sue due anime cinematografiche e che le sue indubbie capacità possano nuovamente prendere il volo.
Marco Romagna