“I am just a simple individual who films what he loves to film”
Wang Bing
In un festival che (di)mostra in modo sempre più drammaticamente la figura/immagine di un cinema che perde coscientemente le coordinate umane, diventando sempre più spesso esclamazione improba di un artificio sociale che fa dello spettacolo la forma più redditizia di sopravvivenza, vedere un’opera di Wang Bing ha il sapore del respiro trattenuto, dell’aria fresca che schiarisce lo sguardo. Non avrebbe più senso nemmeno parlare del suo sempre più intrinseco e tangibile rapporto occhio-cuore e della sua sempre più potente introiezione di realtà che spalanca squarci di vita resistiti nella loro stessa impossibilità di vedersi, e che lui con sensibilità pressoché unica ogni volta ci dona, con profondissimo amore. La leggenda vuole che questo suo ultimo film sia nato per caso, sulla strada di un altro progetto in procinto di essere realizzato, e la cosa lo renderebbe ancora più straordinario. È proprio nell’umilissimo atto dell’accompagnare e del seguire con lo sguardo altri uomini in difficoltà che Wang ci rende nuovamente partecipi del dramma e della bellezza dell’esistere con una semplicità disarmante.
Il teatro d´azione questa volta è la frontiera tra lo Yunnan cinese, e la regione impervia di Kokang in Myanmar (ex Birmania, Burma) dove la dinastia Ta’ang é ancora una volta in pericolo per una guerra civile, e molte donne con bambini scappano oltre il confine verso la Cina. Wang Bing accompagna alcune di queste comunità messe insieme dal destino, allo stesso tempo moderno e quasi mitico e arcaico. Il viaggio disperde ed unisce, la strada è speranza e salvezza, è distanza e futuro, c’è sempre un sorriso, una comprensione, un abbraccio tra queste anime che vagano fra le remote montagne con pochi averi, accampandosi in posti di fortuna e a volte guadagnando un paio di yuan durante il raccolto della canna da zucchero. Una routine che pare disperata, nel continuo vagabondaggio in cerca della più minima delle sicurezze, ben sapendo che è la stupidità dell’uomo a costringerli a tutto ciò, e che è difficile che lungo il cammino possano trovare qualcosa di meglio. Le condizioni di vita nei campi di accoglienza e la reperibilità di generi di prima necessità sono in costante evoluzione a causa del sovraffollamento (tra le continue derive di post-occidentalizzazione e l’estetica della fame disarmante), con molte persone sul ciglio della strada a riflettere sulla propria esperienza di terrore della guerra, sulla loro fuga, sulla loro angoscia perenne di essere picchiati, massacrati, forzatamente arruolati come combattenti.
Ma proprio qui sta la straordinarietà del cinema di Wang, che ancora una volta non calca mai la mano, lascia scivolare gli eventi più drammatici sempre con partecipazione e mai con compassione, segue in prima persona il cammino di questo straordinario popolo soffermandosi attorno al fuoco la sera, dove si parla di quello che sulla loro pelle hanno sperimentato fino a quando spesso qualcuno esclama che sarebbe meglio non parlare affatto, è troppo doloroso. Fino all’ultimo respiro della candela, il dialogo che si scioglie in un coro di ombre che respirano affannosamente nel buio. Allora la telecamera (e la sua luce) si spegne, come se anche lei stanca avesse bisogno di rifiatare per un altro giorno sulla strada. Il cinema di Wang Bing non tenta di analizzare questa guerra dimenticata, non vuole nemmeno educare socialmente o storicamente uno spettatore, si limita (?) a mostrare questo umanissimo flusso di estrema sensibilità nel guardare gli ultimi uomini del mondo a contatto con gli ultimi luoghi del mondo. È lui stesso che sta in prima linea, a supportarli e accompagnarli come se la macchina da presa non fosse solo una finestra su di loro, ma quasi un bastone con cui si possano sorreggere e con cui dialogare continuamente per sentirsi un po’ meno soli. Lui filma solamente ció che ama e, in questa dolcissima osmosi, basta lo sguardo per innamorarci a nostra volta. Nei tenerissimi sguardi di quei bambini, nella tenacia delle loro madri, nell’amore continuo che cortocircuita l´immagine e la guerra stessa, anche la paura pare perdere il sopravvento. La loro, ma forse anche la nostra, spettatori attoniti dell’ennesimo film straordinario di Wang Bing.
Erik Negro