«WATCHOUT! A baad asssss nigger is coming back to collect some dues»
(«ATTENTI! Un negro cazzuto sta tornando a riscuotere un po’ di quanto gli è dovuto»)Didascalia finale del film
«Questo film è dedicato a tutti i fratelli e le sorelle che ne hanno abbastanza dell’uomo bianco». Senza mezzi termini, senza girarci intorno, senza che ci potesse essere alcun dubbio. E ancora, in doppia lingua inglese e francese, «Sire, queste righe non sono un omaggio alla brutalità che l’artista ha inventato, ma un inno dalla bocca della realtà». Chiamando l’intero sistema capitalistico «Sire», come a relegare la supremazia e la mentalità bianca nel Medioevo, ma anche come a rievocare e ribaltare quello spirito cavalleresco sul quale fondare, se necessario attraverso la violenza, una nuova e più giusta realtà. È una dichiarazione di intenti lampante quella che apre uno dei film più apertamente politici di sempre, una bomba a mano sul sistema, la nascita di un’onda pronta a travolgere tutto per cambiare il cinema, la società, la borghesia, il potere, l’intrattenimento, la narrazione, l’America. Un film di neri per neri, punto di rottura e di sovvertimento universalmente riconosciuto come capostipite della Blaxploitation che da quasi mezzo secolo scalcia tutto il suo furore sputando sangue e umori in faccia a ogni istituzione, a ogni linguaggio, a un’intera società. Allo spettatore, accecato, assordato, trascinato in una nuova (anti)epica fiabesca del quotidiano sospesa fra l’atemporalità di un bianco passato contro cui combattere e la stretta contemporaneità delle Pantere Nere. Perché è un film di pura rabbia Sweet Sweetback baadasssss song, è un film di resistenza, è un film di ribellione e di fuga, è un film di istanze che esplodono in rivolta. È un film in cui, per la prima volta, il nero ingiustamente accusato e incastrato di omicidio si ribella al bianco, al suo razzismo, alle sue iniquità, alla sua polizia, all’ipocrisia della sua religione, e finalmente lo batte riprendendosi la dignità, la libertà, la rivincita personale e di un intero popolo, quella «Black Community» che, al posto dei nomi degli attori, viene accreditata nei titoli di testa come l’unica protagonista. Un nero, interpretato dallo stesso Melvin Van Peebles in uno straordinario one-man show di scrittura, regia, interpretazione, montaggio e profondissimi testi delle magnifiche musiche funk che puntellano la narrazione, che al di là del gioco di parole agrodolce fra il nomignolo “Sweet-back” e la sua canzone da “bad-ass” non è semplicemente un badass, “cazzuto”, ma baadasssss. Un “cazzuto” raddoppiato o addirittura triplicato, urlato, stridente, più che mai incazzato. Della rabbia di una comunità, di un’etnia, di una nazione nella nazione ghettizzata e sfruttata, ma finalmente pronta a esplodere. Come il ribollire di una pentola a pressione, come un vulcano ormai pronto alla sua fase pliniana, come il punto di innesco di un’insurrezione ormai matura e inevitabile.
Era il 1971, le rivolte nei ghetti afroamericani si moltiplicavano sempre più violente contro la repressione bianca e l’attore, sceneggiatore, regista, compositore, montatore, pittore, giornalista, scrittore e soprattutto attivista statunitense Melvin Van Peebles si era già fatto le ossa dietro alla macchina da presa prima nella Francia della Nouvelle Vague con La permission (1968), e poi di ritorno negli States con la sua opera seconda Watermelon Man, noto in Italia come L’uomo caffelatte (1970) e prodotto dalla Columbia. Lavori che già contenevano al loro interno, se non altro nel grottesco di un uomo bianco che si risveglia nero, oppure nel dipingere di bianco il volto dell’attore nero Godfrey Cambridge, buona parte delle istanze black di Van Peebles, ma in qualche modo ancora ingabbiati da un controllo produttivo saldamente in mano alle major dei bianchi, e quindi ancora mediati, ancora troppo depotenziati nel tentativo di renderli accettabili a un pubblico borghese per poter realmente colpire e stravolgere il sistema. Perché potesse scoppiare definitivamente la rivoluzione serviva la totale indipendenza, serviva il pieno controllo sull’opera, serviva l’autoproduzione a costi irrisori. Serviva Sweet Sweetback baadasssss song, con i suoi cartelli iniziali sul fermo immagine, con il suo prologo per molti versi scioccante (quanto profondamente simbolico nel ribaltamento di ogni stereotipo) di iniziazione sessuale del protagonista ancora bambino, con le sue infinite trovate linguistiche, con la sua macchina sempre a mano, con il suo montaggio d’avanguardia, con il sole accecante dei suoi esterni e il buio quasi assoluto delle sue notti insanguinate. Serviva la sua furia, serviva la sua lotta di classe, serviva il suo ostentato anticapitalismo urlato in faccia a tutto il sistema, servivano i suoi attori costretti a girare armati sui set per evitare possibili aggressioni, e serviva anche che lo stesso Van Peebles – stando all’inevitabile leggenda che avvolge come un’aura ogni spartiacque di una filmografia – contraesse la gonorrea durante le riprese di una delle scene di sesso per sfruttare i soldi ottenuti dalle assicurazioni e dai sindacati per il “danneggiamento sul lavoro” per comprare altra pellicola: il cinema è un amplesso, e farlo come atto teorico e politico è un orgasmo. Serviva l’audacia dei suoi fermi immagine, dei suoi zoom, delle sue doppie esposizioni, delle sue specchiature di split orizzontali e verticali. Servivano i suoi negativi virati, le sue ripetizioni, le sue ellissi, i suoi salti temporali. Servivano i suoi riquadri, le sue sfocature, i suoi fotogrammi strisciati, i suoi cambi di pasta fra il 16 e il 35 mm. Servivano i suoi cessi, i suoi nudi frontali, i suoi dettagli sul colare del suo sangue, le sue richieste di soddisfazione sessuale prima di sfilare le manette, le sue inquadrature scientificamente fuori asse. Servivano i suoi continui punti di rottura con il linguaggio del cinema “bianco”, unico modo per poter davvero rompere anche con la società bianca, per poter accendere la miccia, per vedere finalmente i propri colpi andare a segno. Servivano una destrutturazione totale e una reinvenzione, come puro e precisissimo atto politico di lotta e rivendicazione. Necessariamente contorta, filologicamente incasinata, orgogliosamente d’exploitation. Proprio come la cruda realtà sulla quale fiabeggiava, senza poter immaginare che quarantotto dopo la sua attualità sarebbe stata ancora così drammaticamente pressante.
Non poteva mancare, nella retrospettiva locarnese Black Light, un capolavoro assoluto come Sweet Sweetback baadasssss song. Eppure, fino a relativamente pochi anni fa, era pressoché impossibile reperire il film di Van Peebles, uscito al tempo in due sale in tutti gli USA e poi circolato più o meno clandestinamente, sostenuto e consigliato dalle Pantere Nere ma al contempo (comprensibilmente) ostracizzato da quel potere bianco che il film, nella sua ostentazione di eros e violenza, mette alla berlina e uccide proprio come quel cane che è sempre stato nei confronti dei ghettizzati. Del resto, è chiaro sin dal prologo il tipo di lavoro che Van Peebles vuole fare, e che così tanto influenzerà il cinema successivo da Spike Lee a Quentin Tarantino: l’intenzione è quella di ribaltare ogni senso rispetto al precostituito, con il sesso che da inconfessabile tabu diventa scorciatoia per la crescita, con le donne che diventano uomini nel continuo scambio degli accoppiamenti selvaggi in pubblico che costellano la vita del gigolò protagonista, con il (falso) sacerdote che rifiuta l’accoglienza ai fuggitivi ma promette un’«Ave Maria nera», con l’eroe che è uno sbandato incastrato e scelto dai bianchi come mero capro espiatorio con il quale “risolvere brillantemente il caso in tempi rapidi”, con i fuochi di ribellione in mezzo alla strada che diventano nelle fiamme all’auto della polizia l’unica possibile salvezza dall’uccisione post-arresto, con i paesaggi polverosi del finale western che tornano al classico per sovvertirlo nel soccombere del bianco di fronte al nero che passa il confine, e non certo in ultimo con le puttane che da perdizione diventano salvifiche mamme e maestre, con il bordello nel quale lavorano elevato a unica possibile scuola di vita. In un sottobosco di gangster e poliziotti corrotti, torture e obitori, esplosioni di violenza e atti di umanità, di salvataggio, di vendetta, di riconoscenza, di scelta di far salvare l’amico delle Black Panthers in luogo di se stesso, la fuga solitaria di Sweetback è quella di un intero popolo, pronto a partire innocente ma anche a sporcarsi le mani pur di salvarsi dall’ingiustizia e mettere fine ai soprusi. Che sia un addentrarsi nelle fogne o un correre sui binari tra elicotteri e strade bianchissime di pulviscolo, oppure un rimanere sulla porta del bagno a parlare con chi sta cagando e saprà farsi torturare fino a diventare sordo per gli spari accanto alle orecchie ma mai tradirà il protagonista, Sweet Sweetback baadasssss song corre a perdifiato fino in Messico contro l’ipocrisia e l’incapacità del potere. Basterebbe il capo della polizia circondato da cronisti, pronto a ordinare ai suoi altrettanto bianchi sottoposti l’esecuzione del sospettato pur di avere un cadavere da dare in pasto alla stampa, oppure basterebbero i bikers bianchi che sfidano apertamente Sweetback, pronto a sfoderare ancora una volta l’arma del sesso per battere in un orgasmo la loro capa, e non potranno che andare via di fronte alla sua schiacciante vittoria. Sweetback, che in un bordello ha smesso di essere bambino ed è diventato uomo, che per tutta la vita si è portato dietro quel soprannome dato dalla prima puttana al suo ancora fanciullesco organo sessuale, che sarà costretto a uccidere e fuggire per salvare i fratelli di lotta e per non essere ucciso da una legge che nulla c’entra con la giustizia, e che quasi come una nuova figura cristologica – «Jesus saves», ricorda più volte il neon rosso che illumina la città – saprà guarire da solo le proprie ferite infette, saprà nutrirsi di insetti, saprà bere pozzanghere, saprà far fare ai cani sguinzagliati a cercarlo la fine che il potere merita, saprà «muovere il suo culo nero» per non rendere vano il sangue dei fratelli e delle sorelle che non ne possono più dell’uomo bianco. Contro i soprusi, contro lo sfruttamento, contro l’emarginazione. «Attento, uomo bianco: un negro cazzuto sta tornando a riscuotere un po’ di quanto gli è dovuto».
Marco Romagna