«Allora non era solo un sogno», esclamerà la diciassettenne protagonista Suzume quando i suoi diari da bambina riemergeranno dalle macerie della vecchia casa di Honshū. Un ritorno al cuore del trauma, a quei luoghi e a quei disegni che già mettevano su carta le visioni della sua intera vita, per affrontare finalmente di petto dodici anni di incubi e di rimozioni, di dolori e di mancanze, di immaginazioni e di smarrimenti, di lutti mai superati e di bruschi risvegli nella notte. Come se una parte di lei fosse rimasta quella bambina che nel subconscio e nell’onirico ancora cerca disperata, fra le rovine della città appena devastata dal terremoto e dallo tsunami, quella mamma che non potrà mai più tornare, fra le oltre diciassettemila vittime del sisma e ora solo un bacio nel vento, un ricordo lontano, una sedia per bambini costruita con le sue mani per regalarla alla figlia e sempre rimasta fra i suoi oggetti più cari. Eppure per Suzume non è più reale memoria, l’11 marzo del 2011, come non lo può più essere per chiunque al tempo avesse solo cinque o sei anni. Per lo meno non un qualcosa di realmente chiaro e tangibile, con un prima e con un dopo. È semplicemente un punto di svolta della sua esistenza, la genesi di una ferita mai rimarginata ormai persa nelle nebbie – o forse nell’iperuranio – di un’infanzia ormai troppo lontana: al tempo troppo piccola per poter ricordare con consapevolezza e lucidità, e ora troppo intimamente segnata dalla perdita e dalla vita da orfana per poterla realmente metabolizzare. È forse per questo che, nell’immaginario fantastico dell’ambiziosissimo e a più riprese commovente Suzume con cui l’autore anime Makoto Shinkai, dopo l’uscita del film già a novembre nelle sale del solo Giappone, giunge in anteprima internazionale a sparigliare le carte del concorso della 73ma Berlinale, la protagonista è fra i pochi eletti dotati della necessaria sensibilità per poter vedere l’invisibile e per scoprire il percorso attraverso cui la furia della Natura si carica prima di abbattersi violentemente sulla Terra, e della necessaria forza d’animo per prevenire il disastro riuscendo di volta in volta, letteralmente, a chiudere la porta alla sua avanzata. Una porta magica, che appare nel nulla e che mette in comunicazione il mondo con una realtà-altra, con un’altra dimensione eternamente stellata in cui il tempo non esiste, ma si sovrappone nei suoi piani, così come si sovrappongono indistinguibili la verità e l’illusione. Forse è la porta che mette in comunicazione la veglia e il sogno, il concreto e l’astratto, il giorno e la notte, la vita e la morte, l’esperienza e l’immaginazione, la fisicità cosciente e il malessere interiore, o forse è semplicemente la porta da attraversare per perdersi e ritrovarsi, per annullare le distanze, per entrare in se stessi e ridare un nuovo senso all’intera esistenza annunciando a quella bambina che piange il suo «futuro scritto nelle stelle». Una porta da attraversare per riscoprire l’altruismo, il sacrificio per gli altri, la consapevolezza che anche nel dolore della perdita non ci sarà mai reale solitudine, ma sempre l’affetto delle persone da aiutare e da cui farsi aiutare, gli oggetti simbolici e gli animali ognuno con la sua anima e con la sua provvisorietà, le memorie da recuperare per poter finalmente superare il dolore personale e collettivo di una nazione.
È per questo che gira tutto l’arcipelago del Giappone, l’entusiasmante arco narrativo da qualche parte fra l’avventura, l’azione, la commedia sentimentale, il coming of age e la presa di coscienza storica e familiare di Suzume. Da Kyūshū fino alla Honshū di Tokyo e Kobe, dal nord di Hokkaidō fino alla Shikoku di Matsuyama, a piedi, in auto, in bici e in traghetto per trovare e richiudere le porte prima che sia troppo tardi, prima che “il verme” di energia rossa scateni la sua furia nell’ennesimo terremoto, pensando intensamente alle tante vite da salvare per trovare, come in una sorta di preghiera laica, la forza fisica con cui contrastare la furia vendicativa della Natura. Ma non è un caso che la città da cui tutto parte sia proprio Miyazaki, omonima del grande animatore a cui Shinkai apertamente guarda (con tanto di piccolo personaggio che sembra citare apertamente la protagonista di Kiki consegne a domicilio) per tentare con questo enorme passo avanti nella sua carriera, enormemente più curato dal punto di vista tecnico e finalmente libero da alcuni limiti e autocompiacimenti del passato, di raccogliere definitivamente il testimone dello Studio Ghibli. Con la stessa assoluta precisione fotografica dei dettagli e degli ambienti, con un simile tratto solo di poco meno tondeggiante nei charachter design, con le stesse colorazioni ora tenui e ora sature che deflagrano sullo schermo, con la stessa fluidità perfetta in ogni movimento dei personaggi e della macchina. Ma anche con lo stesso afflato ambientalista, con le stesse corse a perdifiato su e giù per il fiabesco e per l’umano, con lo stesso senso dell’immagine spettacolare e della meraviglia. Con la stessa sconfinata fantasia, in cui poco conta che la porta sia nel nulla di una città ormai deserta o sia quella di una vecchia scuola durante la notte, che sia quella della cabina di un Luna Park chiuso da anni o che sia quella da qualche parte nei sotterranei di una stazione ferroviaria ormai in disuso: qualsiasi luogo di abbandono può aprire il varco con l’ignoto, può creare il pericolo, può diventare la via per lo scatenarsi delle forze (sopran)naturali contro l’umanità. Un’umanità fragile, temporanea, effimera, che giorno dopo giorno fatica a trovare un suo punto di equilibrio proprio come quella sedia con solo tre gambe in cui verrà trasformato da una maledizione il “chiuditore” Souta, che la protagonista incontra e segue lungo la via subito prima di scatenare inavvertitamente un terremoto aprendo la porta e liberando nel corpo di un gatto la pietra di una delle due “chiavi di volta” del sottotitolo inglese “keystone” – tanta è la paura pensando a cosa potrà inventarsi l’adattamento in italiano che, con ogni probabilità, verrà ancora una volta affidato a Gualtiero Cannarsi, inutilmente aulico e spesso fuori luogo nel suo tentativo di tradurre letteralmente, spesso sconfinando nel ridicolo, tutte le costruzioni formali e le sfumature più pleonastiche di una lingua troppo diversa dalla nostra – capaci come un fermaporta o forse come due chiodi di tenere bloccato ai suoi due lati “il verme” e la sua frusta di fulmini e fuoco.
Un pericolo impellente che prende la forma di una spirale di fumo rosso che sale dalle porte come l’eruzione di un vulcano, senza che nessun altro a parte Suzume, Souta e la sua famiglia da sempre impegnata nel «lavoro più importante fra quelli che nessuno sa che esistano» la possa vedere, possa rendersi conto dell’incombente minaccia, possa fare qualcosa per mettere in salvo se stesso e l’umanità. Solo chi è già stato nell’“ever after” della sua anima può vedere, capire, reagire. Salvare la Terra e chi ha scelto di sacrificarsi per gli altri, magari riscoprendo quelle pagine cancellate dalla mente e dal carboncino con cui risolvere finalmente un lutto personale per elaborare quello di un intero Paese sismico e vulcanico, più volte messo in ginocchio dalle violente manifestazioni naturali a cui è inevitabilmente esposto. Il resto sono una zia che dopo la perdita della sorella ha fatto da madre a Suzume, un amico di Souta gentile quanto pasticcione, un nonno da cui imparare il senso dell’atto eroico, una società che comprensibilmente non riesce a non trasformare in sostanziali stelle social l’incredibile di un gatto e di una sedia che si inseguono per le vie delle città, ma anche una serie di incontri e di confronti, di aiuti e passaggi (dis)interessati, di luoghi che si alternano in tutta la bellezza e la fragilità di una terra delicata e dolente, traumatizzata e ancora ferita. Una porta dopo l’altra, un atto altruista dopo l’altro, un’avventura dopo l’altra, un sacrificio dopo l’altro, un affare di cuore dopo l’altro. Un flashback (magari in bianco e nero, con solo la sedia già gialla) dopo l’altro, mentre l’impressione e il sogno ridiventano ricordo, l’amore di una madre, l’inusitata tenerezza di una bambina che non la vedrà mai più, quella porta nella neve oltre cui ritrovarsi da qualche parte fra il sogno e il cielo. Dopo, non resterà che asciugare le lacrime. Quelle di una bambina sperduta in quel mondo-altro che cerca invano la mamma e che per anni si sognerà cresciuta senza riconoscersi, quelle di una giovane adulta che torna nel suo passato per consegnare a se stessa piccola una sedia, una via d’uscita e soprattutto una speranza, quelle di un pubblico felicemente stordito e commosso dalla poesia intrinseca di Suzume, dalla profonda spiritualità animista dei suoi personaggi, dei suoi luoghi e dei suoi oggetti, dalla sua delicatezza nel mettere al centro l’elaborazione del dramma e del lutto. Senza più nulla rimasto inaffrontato, senza più incertezze, senza più traumi ancora da metabolizzare. Pronti finalmente a vivere, sorridere, amare, guardare realmente al domani. Ma anche a (far) piangere di gioia, di strazio, di purissima emozione. Indifferentemente al di qua e al di là della porta. Indifferentemente al di qua e al di là dello schermo.
Marco Romagna