SUSSURRI E GRIDA (1972), di Ingmar Bergman

Guardati allo specchio… sei bella, sei forse anche più bella di allora… ma sei tanto cambiata. Vorrei che vedessi quanto sei cambiata. I tuoi occhi hanno sguardi rapidi e sfuggenti; un tempo guardavi tutto e tutti apertamente senza crearti una maschera. La tua bocca ha assunto un’espressione insoddisfatta, famelica; prima era così dolce. Il tuo viso è pallido, la pelle incolore, sei costretta a truccarti. La tua bella fronte ampia, spaziosa ha quattro rughe sopra ogni sopracciglio… non riesci a vederle con questa luce, ma risaltano chiare di giorno. Lo sai da dove ti vengono queste rughe? Dalla tua indifferenza, Maria. E questa lieve curva che va dall’orecchio alla punta del mento non è nitida come un tempo. Questo significa che sei superficiale e indolente, e lì alla radice del naso perché ora c’è tanto sarcasmo, Maria. Riesci a vederlo? C’è troppo sarcasmo, troppo scherno… e sotto ai tuoi occhi inquieti, mille rughe impietose secche e quasi inavvertibili di noia e di impazienza
David, il dottore (Erland Josephson) a Maria (Liv Ullmann) – Ingmar Bergman, sceneggiatura di Sussurri e grida

Prima di tutto c’è il rosso. Il rosso dei titoli di testa, il rosso dei raccordi e delle dissolvenze, il rosso del vestito e dei capelli di Maria, forse l’apice della bellezza di Liv Ullmann omaggiata dal Bergamo Film Meeting edizione 2018. È il rosso del sangue, è il rosso dell’anima, è il rosso del dolore, è il rosso dell’agonia, è il rosso della stanza nella quale, inesorabile, sta avanzando la morte. Sono rossi i tendaggi, sono rossi i velluti delle poltrone, è rosso il pavimento, è rosso il baldacchino del letto sul quale Agnes, affetta fra Sussurri e grida da una malattia incurabile, aspetta il momento del trapasso. È il rosso nel quale si muovono le figure vestite di bianco, l’innocenza oppure la noncuranza, e poi le figure vestite di nero, il lutto, l’illusorio ritrovarsi prima che le convenzioni borghesi abbiano ancora una volta la meglio. È il rosso per il quale Ingmar Bergman, fino a quel momento restio a rinunciare al suo tipico bianco e nero, non poteva che scegliere di girare Sussurri e grida a colori, sulla grana viva e sulle forti saturazioni della pellicola Eastmancolor. Sta albeggiando quando Agnes apre gli occhi, raggiunge a fatica il bicchiere dal quale inumidire le labbra con l’ultimo sorso d’acqua, e poi si alza dal letto come in una quotidiana – e temporanea – resurrezione, sbircia attraverso i vetri su quel giardino simbolo di una spensieratezza ormai impossibile, si avvicina allo scrittoio, prende la penna. «Oggi è lunedì mattina e sto soffrendo» confessa al suo diario, mentre gli orologi della casa continuano a (s)correre quasi come se fossero un conto alla rovescia, la caduta dei pochi granelli residui nella clessidra della sua vita. Agnes guarda bonariamente Maria che dorme, figura angelicata sulla poltrona così differente dalle sue posture innaturali su quello che sarà il suo ultimo letto, il letto di sudore e di gemiti, il letto della sofferenza e dei rantoli, il letto sul quale abbandonarsi per sempre. Ricorda il rapporto con la madre, Agnes, ricorda la sua preferenza per le sorelle che ora, insieme alla badante Anna, la assistono a turno nei suoi ultimi giorni, ma ricorda anche quel momento in cui, con una carezza e uno sfioramento, si sono sentite forse per la prima e unica volta vicine, complici, semplicemente madre e figlia, senza più preferenze, timori né gelosie.

Nasce da un’immagine, Sussurri e grida, da una visione ricorrente di Ingmar Bergman, da quella che era diventata un’ossessione nei confronti di un salotto totalmente rosso nel quale quattro donne continuano incontrarsi e alternarsi, quasi chiamando il regista, catturando continuamente i suoi pensieri e la sua immaginazione, configurandosi come una necessità pungente. Una di loro, nel fiore degli anni, è agli sgoccioli di vita e le altre la vegliano a turno, ma solo Anna, la servetta, saprà dimostrare reale affetto nei suoi confronti, impermeabile alle convenzioni borghesi, ai ripetuti tradimenti della civettuola, superficiale ed egoista Anna molto più espansiva che sincera, all’ostinata freddezza emotiva e sessuale dell’ermetica Karin. Anna e Agnes sono la religiosità, la redenzione, mentre Maria e Karin sono la fragilità etica, la chiusura morale, la falsità di una società nella quale il trucco non riesce più a dissimulare le rughe dell’imbarbarimento e della violenza psicologica e verbale. Con un uso pressoché inedito per Bergman dei flashback e della voce fuori campo che interrompe i lunghi e assordanti silenzi, Sussurri e grida scava nella psiche e nelle anime delle donne messe in scena, intreccia il filone narrativo principale con episodi estrapolati dal passato o dai sogni delle protagoniste, si inoltra nell’insincerità dei modelli di comportamento, nei diversi approcci alla sessualità, nella Fede, nel rapporto con l’incombere della morte, forse l’unica vera protagonista alla quale non ci si può che abbandonare. Sono grida disperate d’aiuto, sono i sussurri e i rantoli di chi soffre e poi di chi piange al funerale, è la malattia che procede inesorabile, senza più speranze, senza più la possibilità di lottare. C’è solo l’attesa, c’è solo la sofferenza, c’è solo il (forzato) ritrovarsi intorno a un letto di morte. Con primissimi piani di inaudita intensità delle protagoniste a introdurre i loro “capitoli”, Bergman affida a ognuna di loro una breve sospensione con la quale approfondire la loro identità e il loro essere. Agnes ritorna a un’infanzia che quasi anticipa Fanny e Alexander, alla lanterna magica, al rapporto con la madre; Maria torna alla sua relazione adulterina con il dottore, una relazione mai iniziata e mai finita ma sempre in itinere e flagranza; Karin torna al vetro rotto – il vetro di quel bicchiere di vino rosso come la (altrui) passione e la menzogna – e al marito da scioccare con il sangue e la sessualità irrimediabilmente negata come specchio dell’estrema debolezza masochistica che si nasconde al di sotto della sua corazza da donna forte. Rimane Anna, l’unica altruista, che sogna Agnes ancora/di nuovo in vita, pronta a chiedere a ognuna delle sorelle di vegliarne ancora un po’ la salma, di accompagnarla definitivamente all’ultimo approdo, ottenendo il rifiuto e la repulsione di fronte all’avanzare dell’annerirsi delle sue mani, mentre la badante non avrà alcun problema, nella stessa posa della Pietà michelangiolesca, a dimostrare fino alla fine reale amore. La richiesta post-mortem sognata/vista/raccontata da Anna è ultimo ed estremo atto d’altruismo di Agnes, è la sua ultima offerta alle sorelle per la redenzione e il superamento dei propri egoismi, ma entrambe rifiuteranno, preferendo loro stesse e le proprie vacuità, preferendo le loro vite di menzogne e di non amore, preferendo rimanere lontane dal freddo della morte e dei fantasmi, strette nei loro fragili gusci di freddezza e di chiusura.

Sono passati i tempi in cui con la morte è possibile giocare a scacchi, non ha più senso rifugiarsi in memorie non più consolatorie e ormai è inutile continuare a interrogarsi sul silenzio di Dio. Quando la morte giungerà a prendere Agnes sarà invisibile e ineluttabile, annunciata solo dai suoi rantoli e dal suo insostenibile dolore, e quando il pastore verrà a casa a pregare per la salma confesserà candidamente che «La Fede di Agnes era molto più forte della mia». Del resto, la casa nella quale Agnes passa i suoi ultimi giorni, quella casa dell’infanzia in cui tornano le sorelle per assisterla fino al trapasso, conosce già molto bene la morte, reale o evocata. È la casa in cui ha esalato l’ultimo respiro la madre delle tre sorelle, è la casa nella quale Anna ricorda continuamente la sua figlia persa nel cuore dell’infanzia, è la casa nella quale già sono stati messi in scena patetici tentativi di suicidio, fra il marito di Maria pronto ad accoltellarsi da solo con un fermacarte in seguito a un tradimento salvo poi, mai realmente in pericolo di vita, implorare ridicolmente l’aiuto della moglie, e le reazioni glaciali di Karin di fronte al proprio sposo, con tanto di simbolico vetro rotto usato per negare la sessualità tagliandosi la vagina e spalmando il sangue sulla bocca. Èd è la casa nella quale, quasi come in un ribaltamento del miracolo dell’Ordet di Dreyer, Agnes tornerà in vita senza mai tornare in vita, svelando ancora una volta la completa assenza d’amore e umanità da parte della sua famiglia ma al contempo anche l’assoluta e sincera pietà da parte di Anna, della servitù, delle classi sociali più basse, di chi crede nell’amore e nella carità. Quella di Sussurri e grida, forse la tappa più radicale nella sterminata distesa di straordinari capolavori regalati alla Storia da Ingmar Bergman, è una casa/limbo che non si vedrà mai nella sua interezza, proprio come non può essere intero il labirinto dei ricordi che emergono fra i rantoli, proprio come dei personaggi abbiamo solo informazioni parziali, momenti di vita consci dell’impossibilità della visione d’insieme: sappiamo che Maria e Karin sono sposate, sappiamo che la prima ha una figlia, sappiamo che Anna ha perso la sua e quotidianamente la ricorda, ma non sappiamo quasi nulla di Agnes, non sappiamo se abbia mai avuto una famiglia o se sia sempre rimasta nella casa materna, non sappiamo se e quali gioie le abbia riservato la sua breve vita. Conta solo la sua malattia, il suo dolore, il suo presente dal quale rimpiangere il passato, quale che sia, comprese le sofferenze, i complessi di inferiorità, la profonda Fede, la solitudine. Agli episodi e agli istanti sui quali tornare corrispondono in un certo senso le stanze della casa, senza che importi come sono dislocate, con quali altre comunichino o su quale piano si trovino. C’è la stanza rossa, quella dell’agonia e della morte, c’è la stanza di bambole di porcellana nella quale riposa Maria, c’è quella quasi monastica in cui Anna prega per Agnes e accende le candele, c’è il giardino nel quale (non) illudersi (più) di stare meglio e di essere unite. Ma non si vedrà mai un bagno, non si vedrà mai una cucina, non si vedrà mai una scala né un corridoio. Solo porte, frammenti incrociati, punti di vista, dettagli sullo scorrere inesorabile (e irregolare, con gli orologi che ora accelerano e ora si dilatano) del tempo, e specialmente primi piani sui quali Bergman costruisce l’intera narrazione, l’intera messa in scena, tutta l’emotività, la scansione introduttiva e conclusiva dei flashback, il pessimismo che ammanta la vicenda, la disillusione, la parossistica amarezza. I pochi campi lunghi sono mai casuali aperture riservate ai piccoli e mai completi disvelamenti, ai ricordi, ai picchi emotivi, all’angoscioso ritorno alla realtà, alla sofferenza, al respiro affannoso, alle grida di chi sta per morire, dopo i quali si indosseranno ancora una volta, immancabili, le maschere sociali, le menzogne, la gabbia dentro la quale chiudersi come una difesa dai propri (non) sentimenti.

Forte di una messa in scena dall’emotività liquida eppure monolitica nel suo strazio pressoché insostenibile, Sussurri e grida è il dolore più atroce, è l’attesa della morte, è la sua venuta, è la (mai abbastanza profonda) contrizione di fronte alla mancanza, è la falsità delle convenzioni sociali contro la schiettezza di chi almeno nel privato rifiuta l’ipocrisia, è la seduzione contro la completa repressione non solo della lussuria, ma di qualsiasi contatto, di qualsiasi sfioramento. Solo dopo la morte di Agnes, solo dopo il reciproco sfogo di crudeltà verbali tipiche dei dialoghi di Bergman, solo dopo essersi ferite, Maria e Karin riusciranno a ritrovarsi, riusciranno ad abbracciarsi, a dirsi quello che per troppi anni era rimasto in silenzio, e che ancora Bergman lascia non udibile, coperto dalla musica extradiegetica di Bach. Sono i loro volti che si guardano, si sorridono, si sfiorano, si accarezzano, si baciano e quasi si scambiano i ruoli fra sorelle tornate tali nello stesso piano a due di Persona, ma appena passata la nottata torneranno come prima, perse nelle loro convenzioni sociali e nelle loro incompatibili differenze, perse nell’egoismo di Maria fra soddisfazioni momentanee e bugie dette guardando negli occhi, perse nella freddezza di Karin, nel suo odio, nella sua repressione sessuale, nei suoi sensi di colpa. Sono entrambe insoddisfatte, sono entrambe incapaci di reale amore, ma la reazione è quasi opposta, da una parte chi, superficiale, dissimula le proprie insicurezze in un’aperta sensualità, dall’altra chi prova repulsione per gli uomini, per le donne, per il proprio marito, per la propria sorella – o meglio, per le proprie sorelle –, e non fa nulla per nasconderlo. Le protagoniste si ritrovano impotenti di fronte a un dolore insostenibile, inaudito, troppo atroce, troppo grande, e finita l’agonia rimane solo lo spazio per i singhiozzi, per l’orribile necessità di comporre la salma e organizzare il funerale, per i brividi dell’inquadratura dalla testa verso i piedi del letto: Karin e Anna che fanno pragmatiche ciò che serve sotto gli occhi lucidi di Maria immobilizzata dal dolore, ferma a piangere e a singhiozzare. Ma le sue sono lacrime di coccodrillo, dopo le quali inevitabilmente ritorna l’incancrenirsi borghese di prima, ritorna la falsità dietro alla facciata, e giunge la decisione di vendere la casa, giunge quella di licenziare senza pietà Anna dopo oltre 12 anni di fedele servizio, fino ai glaciali saluti anaffettivi fra le ormai due sorelle, ognuna che ritorna alla propria vita, e forse ci si vedrà a Natale. Ma Anna, alla quale le famiglie non concedono nulla, si è già presa il suo ricordo più prezioso, il suo pezzo di cuore. Sfoglia il diario di Agnes, quello che tanto le altre incapaci d’affetto non potrebbero capire, e ritorna alla felicità di quel pomeriggio in cui finalmente Maria e Karin erano tornate a trovarla, alla passeggiata in quello stesso giardino nel quale la madre volteggiava fra le fratte, a quel momento di normalità impossibile, di spensieratezza, di unione. Rileggendo il diario, Anna riporta Agnes all’illusione, al brivido, all’amore, alla gioia. Alla vita, intima e ancestrale sofferenza di uno dei miracoli cinematografici più straordinari di ogni tempo, di fronte al quale probabilmente mai finiranno le lacrime che puntuali, da quasi mezzo secolo, sgorgano copiose.

Marco Romagna