SUSPIRIA (2018), di Luca Guadagnino
«Bisogna distruggere il bello». Lo dice apertamente Tilda Swinton nei panni di Miss Blanc mentre si rivolge alla “nuova” Susy Benner, ribattezzata per l’occasione Susie Bannion (perché?) e incarnata da Dakota Johnson, mentre la prepara a salti e passi di danza per quello che sarà «il rito». Si riferisce alla danza, alla coreografia del Volk attraverso cui il Male dovrà giungere a nutrire e tenere in vita il corpo di Elena Markos sacrificandole e consacrandole le allieve dell’Accademia, ma sembra quasi una dichiarazione programmatica di Luca Guadagnino, ritornato con il suo dapprima solo mediocre e poi sempre più disastroso remake dell’argentiano Suspiria in concorso a Venezia a tre anni da A bigger splash, con in mezzo l’inspiegabile consacrazione internazionale attraverso la disonestà più o meno ovunque acclamata come emozione di Call me by your name. E, quando si cade da un ramo che sta più in alto, il serio rischio è quello di farsi ancora più male. Del resto, se di per sé il remake non è di certo un’operazione da condannare – vengono anzi in mente gli autoremake di Hitchcock e Leo McCarey quando non pienamente soddisfatti da film del passato che per limiti tecnici o produttivi non avevano espresso appieno tutto il loro potenziale, oppure quelli solo vagamente ispirati ai film originali ma totalmente diversi a firma di Quentin Tarantino, o ancora il Solaris di Soderbergh nuovo adattamento del romanzo di Lem volutamente differente da quello portato in precedenza a termine da Tarkovskij – risultava già a monte difficile pensare che potesse avere una qualche utilità tornare su un capolavoro non migliorabile come l’originale Suspiria, ancora straordinariamente moderno nelle “secchiate” di luce di Luciano Tovoli e nelle atmosfere atterrenti come se fossero l’incubo di una bambina, nella costruzione del set fra maniglie alzate e corridoi di colore e nella ben precisa potenza di ogni inquadratura, nella vis politica contro il potere del capitalismo e nella capacità di affascinare, ipnotizzare e terrorizzare. Quella stessa capacità mesmerica e soprannaturale di turbare alla quale, stando alle dichiarazioni, Luca Guadagnino avrebbe voluto rendere omaggio traendo dalla sceneggiatura di Dario Argento e Daria Nicolodi un film tanto diverso da essere imparagonabile, teso a far rivivere sullo schermo quelle emozioni e quella tensione provate da bambino di fronte alla prima visione. Peccato che, nel caso del suo Suspiria, diventi estremamente difficile non pensare al film originale contro il quale perde miseramente sotto ogni punto di vista, troppo simile nelle linee di trama e nel loro sviluppo fino all’indecente ribaltamento finale, mutuato piuttosto dal molto minore La terza madre, che svuota di qualsiasi senso l’intreccio, troppo spudorato nel riprenderne, peggiorandole e privandole di qualsiasi tipo di tensione tanto che il film non spaventerebbe né inquieterebbe nemmeno un poppante, tutte le sequenze chiave. E anche le musiche di Thom Yorke dei Radiohead, per aspettare le quali l’uscita di Suspiria è slittata di oltre un anno, oltre a risultare per larghi tratti alla stregua di un corpo estraneo che poco c’entra, specialmente nelle parti cantate, con il film, perdono miseramente il confronto a distanza con la magnifica suite elettronica, angosciante e martellante fra le sue campanelline e i suoi sospiri, composta oltre 40 anni fa dai Goblin.
Certo, alcune contestualizzazioni e alcuni nomi sono cambiati, la città non è più Friburgo ma è la Berlino divisa del 1977, anno in cui fu girato il film originale, le streghe non sono più capitaliste ma semplici canalizzazioni di un potere malvagio che può permettersi di non chiedere la retta alle allieve, la Susy benestante di Argento è diventata una sottoproletaria dell’Ohio, nettamente diverso (purtroppo) è il finale e, a livello visivo e linguistico, l’immagine che Guadagnino vuole ottenere è totalmente differente da quella, ipersatura, argentiana, ma piuttosto vicina a quelle atmosfere plumbee e grigiastre di Reiner Werner Fassbinder e più in generale del Nuovo Cinema Tedesco. Di cui, in un eccesso di pretenziosità, il regista ha deciso di suggerire tanto di Germania in Autunno nella struttura divisa in prologo, atti ed epilogo, e nell’inserimento di (risibili e superficiali) sottotrame che abbracciano gli avvenimenti che hanno falcidiato la nazione teutonica esattamente in quei mesi (l’aereo Lufthansa dirottato, i suicidi in carcere dei «terroristi della RAF», gli strascichi del nazismo ancora presenti come causa/effetto del Male assoluto nella confusa sottotrama dello psicologo alla costante ricerca dell’amata moglie), destinate a entrare e uscire continuamente dal film fra sparuti schermi televisivi, continui riferimenti alla militanza politica di Patricia, la prima vittima delle streghe interpretata da Chloe Grace Moretz, e sottotesti che non portano da nessuna parte. Anzi, è proprio nei prolissi e vacui riferimenti alla realtà del tempo che questo Suspiria trova, ben al di là dei limiti di messa in scena e dell’impietoso confronto con uno dei migliori film della storia del cinema non solo italiano, i suoi primi insormontabili problemi, con la sostanziale specularità fra il filone principale all’interno dell’Accademia di danza e gli eventi storici buttati superficialmente e alla rinfusa messi sullo stesso piano, e parimenti considerati come parte di un incantesimo che di fatto svuota la Storia della sua complessità declinandola nel solito appiattimento ideologico borghese di Guadagnino. Quello che in quasi ogni suo film porta i protagonisti a cambiare continuamente lingua più per darsi un tono che per effettiva necessità, compreso il francese che, immancabile nello stereotipo della ballerina, qui si affianca all’inglese e al tedesco.
Per quanto le prime due ore siano in sostanza inutili, superficiali e mediocri ma indubbiamente molto meno peggio rispetto ai più funerei timori e a tanta parte dell’opera precedente di Guadagnino (Melissa P. e Io sono l’amore in testa), con le abituali cadute nel kitsch ai limiti dello scult del regista che tutto sommato si limitano a qualche dolly incerto, a qualche zoom inelegante, a un inspiegabile fermo immagine sgranato, a qualche specchio usato a casaccio per anticipare la doppiezza del personaggio di Susie e a pochi raccordi di montaggio “allegri” nel voler come di consueto rifare Ejzenstejn tanto per il gusto di farlo in un continuo cambio dei punti di vista sospeso fra l’incertezza e il “famolo strano”, è nell’ultima sezione, fra il sesto e ultimo atto e l’epilogo (introdotti da un «Il peggio deve ancora venire» pronto ad aprire al «Basta» che, tramite una scritta sul Muro di Berlino, Guadagnino si dirà in un certo senso anche da solo), che il film cade più rovinosamente. Quello che fu l’uso del colore con fari e gelatine di Tovoli viene qui richiamato con imperdonabili elaborazioni digitali dell’immagine, con filtri rossi di postproduzione usati come fossero un improbabile flicker e utilizzi adolescenziali della CGI per trasformare Susie in una sorta di figura a metà strada fra il Male assoluto di Mater Suspiriorum e la cristologia di chi si apre il petto come a mostrare il cuore – tanto che diventa inevitabile pensare a come questa iconografia finisca involontariamente per ricordare il film “che ha diviso il pubblico” della scorsa edizione veneziana, madre! di Darren Aronofsky, che con Suspiria condivide un simile e radicale problema di iconologia. E il ribaltamento dell’ultima sezione rende per giunta incoerente il decadimento fisico di Elena Markos, trasformata in un mostro avendo in sostanza l’età delle altre, mentre il passaggio di Susie da vittima destinata a espiare colpe altrui a carnefice rivelandosi come prima delle Madri argentiane relega di fatto la figura infernale della (onni)potente decana (rappresentata come una sorta di improbabile crossover fra John Lennon, Elton John e Jabbah the Hutt) da strega Madre a semplice fondatrice dell’Accademia. Il che, a ben vedere, svuota di ogni senso anche la necessità di tenere in vita chi non è la strega primaria di Argento ma, come tutte le altre insegnanti/streghe, una semplice consacrata alla Madre principale. Una scelta incomprensibile, come del resto è incomprensibile la presenza dello psichiatra (accreditato come il fittizio Lutz Ebersdorf, quando si tratta invece ancora una volta di una straordinaria, lei sì, Tilda Swinton resa quasi irriconoscibile da una lunga sessione di make-up) al rito orgiastico/carnivoro/funerario delle streghe dopo un non propriamente motivato rapimento, e ancor più incomprensibili risultano a questo punto la scelta di liberarlo al termine della nottata infernale e quella di renderlo finalmente edotto sul terribile destino affrontato dalla sua amata moglie in tempo di guerra – rivelazione che di fatto uccide ogni tipo di umanità annullando persino la speranza – per poi cancellargli la memoria con un solo gesto della mano. In attesa che la macchina da presa, dopo essere passata per l’effetto comico involontario della testa di cadavere che cade in un sol movimento pateticamente preannunciato dal «Miss Blanc ha purtroppo lasciato la scuola» comunicato alle ballerine, chiuda sul cuore inciso dal medico sul muro di casa, e che al termine dei titoli di coda quello stesso gesto della mano tenti di cancellare la memoria anche agli spettatori. Senza riuscire nell’incantesimo, purtroppo.
Ben al di là delle banalizzazioni storiche e degli spunti junghiani presi dal testo di Argento e appiattiti in una pretenziosa superficialità, quello che attanaglia il Suspiria di Guadagnino è un problema di immaginario, di assenza di sguardo, o detto ancor più prosaicamente di talento, con un discutibile senso estetico (si vedano le inadeguate inquadrature zenitali, solo parzialmente mitigate dal buon montaggio di Fasano, sulla sequenza dello spettacolo di danza nel quale solo Susie, anticipando implicitamente la sua reale identità, può permettersi di improvvisare cambiando passi rituali vecchi di decenni) costantemente anteposto alla sostanza, con ripetute cadute nel “brutto” e con una struttura narrativa ipertrofica, sovraccaricata di tematiche non supportate dai necessari approfondimenti. C’è di tutto, ma nulla viene davvero sviluppato, dalla situazione sociopolitica del ’77 al tentativo di controllare la mente e le emozioni attraverso il linguaggio del corpo e della danza come orgasmo animalesco e possessione, dal ripudio delle madri per consacrarsi a una nuova Madre (con tanto di «Lunga vita a Markos» post-elezioni che, se avesse una “c” al posto della “k”, di certo non sarebbe presa bene nelle Filippine) alle continue spaccature (le fazioni Markos e Blanc in Accademia, le dissociazioni mentali delle ragazze/streghe/vittime, ma anche le dicotomie fra magia e attivismo, amore e manipolazione, bugie e verità, deliri e illusioni) che mai emergono dalla superficie, dalla politica solo sfiorata ai salti come controllo del corpo al rapporto fra maestre e allieve, dalla volontà di espiare colpe anche non proprie (fra le quali il nazionalsocialismo, Male di tutti i mali rispetto al quale le streghe non sono poi così malvagie, ed è qui che sta l’assunto che vorrebbe fare del film un’opera femminista) alle sequenze oniriche e incubali di rara bruttezza instillate dalle streghe nelle menti e nel sonno di tutte le allieve. Al di là del campionario di effettacci di terz’ordine e di fotogrammi strisciati, passando per l’immotivato suicidio scult del terzo personaggio interpretato dalla Swinton, basterebbe il titolo del film scritto come se fosse una fermata di metropolitana per denunciarne i problemi di sguardo, basterebbero gli specchi che ribaltano l’immagine a telefonare i ribaltamenti narrativi, così come basterebbero gli sciatti ralenti sotto la neve, le pagine più kitsch della sceneggiatura firmata da David Kajganich (drammaticamente indimenticabile il «Se scopriranno che ho parlato con lei mi squarteranno e mangeranno la fica» detto da Patricia al dottore) e le visioni notturne fatte di sangue alla bocca, figure spettrali, nudità gratuite, ganci da macellaio, improbabili arrampicamenti, maschere e vermi, a denunciarne la mediocrità e la pretenziosità. Basterebbero i corridoi e le stanze segrete dell’Accademia, arredate più o meno come se fossero un ripostiglio di cadaveri di pareti nere e fregi dorati, basterebbero le involontariamente ridicole fotografie che ritraggono la gioventù delle streghe, oppure basterebbe la scelta di esplicitare tutto anche quando privo di senso e collegamenti con il resto, a partire dal prologo nel quale Chloe Grace Moretz racconta già al medico tutti i misteri di Suspiria, dalla natura soprannaturale dell’Accademia maledetta alla volontà di possessione del suo corpo per nutrire e salvare la decana fondatrice, dalle mappe del potere femminile alle stanze segrete, dagli istinti terroristici alla capacità di ferire e offendere attraverso la danza e le sue violente coreografie.
Il film di Guadagnino, lontano anni luce dall’originale, è in tutto questo un pastiche informe e deforme, che forse fra una caduta e l’altra forse nemmeno sarebbe privo di spunti di interesse o di coraggio, ma che se sulla danza fa tutto sommato un buon lavoro finisce per sprecarlo con inquadrature quasi mai all’altezza delle coreografie, e se per buona parte del suo scorrere in qualche modo “funziona”, tenendosi lontano dalle vette ma non ancora immergendosi negli abissi, saprà affossarsi da solo con una serie di soluzioni finali ai limiti dell’impresentabile. In tutto lo scorrere di Suspiria sono assenti o quasi le stratificazioni psicologiche dei personaggi, troppe suggestioni non sono gestite a dovere, troppe intuizioni sono buttate a casaccio e Luca Guadagnino ricorda minuto dopo minuto di non saper filmare i corpi, né le emozioni, né tanto meno la paura. Fino a quell’imbarazzante mezz’ora finale, che annulla qualsivoglia coerenza narrativa e tematica, la sostanza viene progressivamente e drammaticamente subordinata a una forma che di per sé non è certo impeccabile, mentre Suspiria tenta di vivere di illuminazioni dimostrandosi incapace sia di smuovere emozioni sia di turbare, sia di interagire realmente con l’ambiente che viene rimesso in scena intorno al Muro di Berlino sia di dare un senso alle sue banali e vuote istanze femministe. Semplicemente, il film di Guadagnino si trascina nel ripercorrere troppo alla lettera la trama argentiana innervandola di suggestioni da cui mai emergerà qualcosa che vada oltre la pura superficie, fino a deragliare totalmente nelle ultime sezioni che avrebbero dovuto invece chiudere i discorsi, e non affrontarne di diversi. E non possono in alcun modo bastare le vittime deformate e uccise dalla danza di Susie fra ossa rotte e grida contorte, le donne mutilate nelle segrete, le apparizioni e sparizioni di chi può mutare forma o l’inguardabile rito finale per trasformarlo nell’horror che non riesce in alcun modo a essere. Né nel melodramma al quale vorrebbe guardare mancando altrettanto clamorosamente il bersaglio. O per far dimenticare i tanti, troppi, momenti scult di un film forse a sparuti tratti nemmeno totalmente da buttare, ma del quale è onestamente difficile capire come si potesse sentire il bisogno. «Questa non è arte», si dice espressamente, ma il Suspiria “vero” lo era, eccome se lo era. E l’arte rimane. Questa roba no.
Marco Romagna