SUSPIRIA (1977), di Dario Argento
«La magia è quella cosa che ovunque, sempre e da tutti è creduta». Sono passati 39 anni dalla prima proiezione di Suspiria, il film che segnò il passaggio di Dario Argento dal thriller della trilogia degli animali e Profondo Rosso all’horror, dal materiale al soprannaturale, dalla malvagità umana a cui contrapporsi (quasi) ad armi pari a un male più puro e inarrestabile, incorporeo, etereo, primordiale, eterno. Sono passati 39 anni, eppure Suspiria, stella luminosa fra i capolavori più conclamati di Argento riproposta su grande schermo – in attesa del preoccupante remake di Luca Guadagnino in uscita il prossimo anno in occasione del quarantennale – fra i Film delle Giurie al Festival di Locarno 2016, appare un film incapace di invecchiare. E se lo stesso Dario Argento suddivide il brivido in paura, panico e delirio, Suspiria è un viaggio nel delirio più ancestrale, è il ritorno delle streghe, è la lotta impari e terrorizzante contro forze più grandi di noi. Fotografato da Luciano Tovoli in un Technicolor di penetrante saturazione, mutuata direttamente da Biancaneve e i sette nani, su pellicola a bassissima sensibilità (30-40 ASA), utilizzando stoffe sulle luci al posto delle comuni gelatine per poter letteralmente lanciare i colori come una secchiata sui volti degli attori, il film di Argento, noto per non avere mai due volte la stessa inquadratura, si nutre di profondità di campo e di accostamenti cromatici, di dettagli e di campi lunghissimi, di montaggi serrati e di liminali musiche elettroniche firmate come d’abitudine dallo stesso Argento insieme ai Goblin di Claudio Simonetti. Suspiria è un terrore che si fa via via sempre più incorporeo, è un progressivo inoltrarsi nel soprannaturale, è un percorso che riassume quello del proprio autore, dal killer alla strega, dalla fisicità alla magia, dalla definizione delle scenografie all’inoltrarsi drammatico e inquietante delle figure in macchie di colore: i rossi disturbanti, i verdi algidi, i blu profondi.
Suspiria sono i gemiti notturni che aleggiano per la prestigiosa Accademia di danza di Friburgo, è un respiro che contiene un sibilo, è l’ossessivo girare della spirale argentiana verso l’occulto. L’americana Susy Benner (Jessica Harper), accolta dalla voce narrante calda e al contempo disturbante dello stesso Dario Argento, atterra all’aeroporto tedesco sotto un pesante acquazzone, giunge nottetempo all’Accademia senza che le venga aperto, incontra casualmente Pat in fuga dall’edificio poco prima che il male, questo nemico magico, incorporeo e che non si può più decapitare con un’ascensore, provochino a quest’ultima una morte orrenda, fra un braccio che la spinge contro la finestra per soffocarla, ripetuti accoltellamenti e poi l’impiccagione in una pioggia di vetri e sangue. «Le streghe», sosterrà più avanti il professor Milius, contrapposto al materialismo dello psichiatra Frank Mandel che si limita a considerare l’occulto alla stregua di un’allucinazione, «fanno il male. Nient’altro al di fuori di quello. Conoscono e praticano segreti occulti che danno il potere di agire sulla realtà e sulle persone, ma solo in senso maligno. Il loro scopo è ottenere vantaggi materiali e personali ma possono raggiungerli esclusivamente con il male degli altri. Con la malattia, con la sofferenza, il dolore e non di rado la morte di coloro che prendono di mira per una qualsiasi ragione». E infatti le streghe che Argento mette in scena sono in realtà una proiezione del capitalismo, quello delle insegnanti e di buona parte delle studentesse dell’Accademia ossessionate dal denaro (quei 50 dollari d’affitto dei quali si parla come se fossero vitali), dalla perfezione, da una volontà di controllo sugli altri che culmina nel ricovero forzato di Susy presso l’Accademia, novella Casa degli Usher da far cadere e, ancora una volta, bruciare.
Non si può prescindere dalle lezioni del gotico italiano, in testa Fulci, Freda ma soprattutto l’immaginario, le modalità narrative e la fotografia di Mario Bava, nell’approcciarsi a Suspiria e più in generale a Dario Argento. Ad accomunare il lavoro dei due grandi maestri del brivido italiani infatti, al di là della capacità di porre, rimasticare e al contempo scardinare gli stilemi del cinema della tensione, c’è prima di tutto un’approfondita indagine sulla messa in scena, sulla forza espressiva delle immagini, della luce e dei colori, sulla funzione ancestrale del montaggio e del fuori campo, su una gestione delle musiche in grado di far esplodere la più bruciante inquietudine anche da ciò che normalmente sarebbe ben lontano dal fare paura: una finestra, un sorriso un po’ sadico, uno sguardo malizioso, uno specchio, un’ombra, un colore. Simmetriche e visionarie, le intuizioni visive e narrative di Argento tengono ancora oggi il pubblico sulla corda, seduto in punta alla poltrona e quasi incapace di respirare, pronto a sussultare ad ogni visione, anche quando si sa già perfettamente che da quella finestra spunterà quel braccio, o che quegli occhi nella notte sono quelli, ciechi, di un pipistrello. Occhi ciechi come quelli del pianista nell’ultima passeggiata della sua vita, un puntino nel gigantismo delle piazze europee che passano qui dalla torinese piazza CLN di Profondo Rosso all’austerità fantasmatica della cattedrale di Friburgo.
Suspiria è una progressiva e terrorizzante discesa nell’occultismo, fra inquietanti factotum, bambini in divisa da paggio immobili vicino a cuoche ipnotiche, invasioni di vermi, pianisti ciechi, medici che impongono diete di sanguinolenti bicchieri di vino rosso e morti orrende di chiunque si opponga, o anche solo tenti di porre una minuscola frattura, all’ordine magico, malvagio e superiore di Elena Markos, fondatrice dell’Accademia e potentissima strega, impalpabile burattinaia che muove, nell’atroce tormento dei suoi Suspiria, i fili della narrazione. I cani sbranano i propri padroni, il fil di ferro inghiotte le giovani protagoniste troppo curiose, i pipistrelli entrano dalle finestre per attaccare come vampiri le ragazze, i passi delle insegnanti conducono Susy, fra tende svolazzanti e passaggi segreti di fiori di iris, fino al cuore della paura, e quindi della più pura umanità. Argento, con Suspiria, porta avanti un cinema di donne al contempo fragili e coriacee, impaurite e impavide, vittime e carnefici. La risoluzione dell’enigma sarà caso e costanza temeraria, una figura invisibile di cui traspare però un contorno, un oggetto decorativo appuntito nelle mani, un solo tentativo possibile: la liberazione dal male secolare, la baviana studentessa americana che risolve gli antichi drammi europei. È il tempo di un altro violento acquazzone, chiusura del cerchio mentre la morte della strega-ape regina trascina nel fuoco l’intera colonia di male, morte, dolore paranormale. Del resto, Suspiria è una fiaba nera, inizialmente immaginata come una storia di bambini e solo successivamente traslata sulle adolescenti per imposizioni produttive, lasciando però inalterata la meraviglia innocente delle protagoniste, la loro ingenuità, le maniglie delle porte alzate fino alla linea degli occhi, proprio come se fosse un infante ad aprirle. E, come in ogni fiaba che si rispetti, non si può prescindere dal lieto fine, dal ritorno alla serenità iniziale, dalla gioia fanciullesca, con quel sorriso soddisfatto di Susy che si allontana sotto il diluvio lasciandosi le fiamme alle spalle. Ma Suspiria no, non rimane mai alle spalle, non passa, non invecchia, non muore. Come fanno puntualmente, a ogni nuova visione, solo i capolavori straordinari.
Marco Romagna