Basta un solo movimento di macchina lungo gli angoli di una stanza d’albergo per delineare una linea di simmetria fra la morte e l’amore, fra la mancanza e la dolcezza, fra il dolore e la felicità. Una lenta carrellata con cui il nipponico Kohei Igarashi, poco prima della metà del suo Super happy forever che apre ufficialmente le Giornate degli Autori annesse all’81ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, rompe i muri del tempo in un salto a ritroso di cinque anni che vira la narrazione di un lutto improvviso e impossibile da accettare nel flashback dolcissimo e straziante che ritorna alla nascita del sentimento, all’incontro casuale e all’incrocio di sguardi, ai primi timidi corteggiamenti e al definitivo (per lo meno “finché morte non vi separi”) trovarsi di quella coppia felice e logicamente ignara della tragedia. Un percorso in retromarcia, o per meglio dire in miracoloso equilibrio fra i due binari temporali ed emotivi paralleli e del tutto opposti della più cupa disperazione e della più commovente delizia di chi si sta innamorando, che parte dai luoghi come depositari della memoria immaginando il ritorno del vedovo disperato nelle stesse stanze d’albergo e con lo stesso amico con cui ai tempi aveva conosciuto quella moglie di recente trovata senza vita nel letto, e che carica dell’inestimabile valore affettivo e simbolico di un ultimo simulacro un cappellino rosso che, per chi non può conoscere i dettagli della storia, nient’altro rimarrà che un copricapo da pochi yen, o al massimo un altro ricordo un po’ bizzarro. Un’intuizione poetica, al contempo sentimentale e amarissima nella naturalezza con cui il (bellissimo) finale (non può) chiude(re) il cerchio, che affonda le sue radici fino al cuore della cultura giapponese e in generale orientale, eppure non è affatto un caso che, come tema musicale ricorrente che lega il dolore e lo smarrimento del presente con la gioia del ricordo e del passato, venga più volte cantata Beyond the Sea versione inglese della celebre La mer dello chansonnier francese Charles Trenet. Come a dichiarare ulteriormente, dopo la collaborazione in co-regia con Damien Manivel (del resto anche qui presente come co-produttore e co-montatore) nel precedente Takara – La notte che ho nuotato, il costante sospirare di Kohei Igarashi verso il cinema transalpino, con un film che, mentre si addentra nella non-elaborazione del lutto, più che mai guarda alle fette di vita, agli interstizi amorosi e alla levità solo apparente di Éric Rohmer.
Del resto, stando alle note di regia, è da ricercarsi proprio in Takara – La notte che ho nuotato la genesi di questo Super happy forever, partito nel 2018 con una mail inviata a Igarashi dagli attori Hiroki Sano e Yoshinori Miyata entusiasti del suo lavoro al tempo appena uscito in sala, e pronti a proporre al regista una collaborazione per un film in cui ri-costruire e interpretare loro stessi. È per questo che non si limitano a portare soltanto i nomi di battesimo dei propri interpreti, i Sano e Miyata protagonisti di questo dramma in due atti e un epilogo, ma ricalcano dettagli ed episodi della loro vita quotidiana minuziosamente annotati per anni e inseriti nella trama di finzione. Una trama a sua volta destinata a trovare la sua forma definitiva dopo la tragica e del tutto inaspettata morte, a soli trent’anni, di uno storico amico del regista, con la decisione di Igarashi di incentrare il film su quel sentimento di shock e turbamento di chi si ritrova a non potere, più ancora che non volere, accettare un lutto semplicemente indigeribile. Un po’ come se Super happy forever, prima nel suo disperato e impossibile cercare di (far) tornare il passato e poi nella dolcezza (in realtà a sua volta acre nella consapevolezza del triste futuro) del suo ricordarlo e riscoprirlo completando tutte le tessere simboliche del puzzle narrativo, cercasse nello slancio artistico l’unica strada possibile per una risoluzione, o per lo meno per una pacificazione, attraverso la sublimazione di un trauma reale e personalissimo in un suo corrispettivo di finzione, in un suo emblema, in un paradigma nel quale registicamente riprendere (e magari umanamente riperdere) il controllo. Un film con cui interrogarsi, con grazia e commozione, sulla (propria e collettiva) disperazione, per scandagliarla, per rimetterla in scena nella frustrazione necessariamente cinica ed egoista (e forse proprio per questo capace di creare così immediata empatia in chi la riconosce e la capisce) di un uomo in preda allo sconforto che non può fare altro che mettersi al centro per sopravvivere ai propri brutti pensieri, e poi per addolcirla (o forse per renderla ancora più insostenibile) nel ritorno alla levità dei momenti più belli, ai primi sorrisi, ai dolci ricordi ancora e per sempre conservati in quelle stanze e su quel pontile, anche se forse (o forse sì) non più nella mente di chi ci ha continuato a lavorare.
Sono più che sufficienti una manciata di location e tutto sommato poche linee di dialogo a Kohei Igarashi per introdurre il dramma e la disperazione alienata di Sano. Basta un telefono gettato in mare non appena qualcuno dall’altra parte della linea nominerà quel suo amore perduto per sempre, basta il sedile di un taxista preso a calci quando parlerà nel momento sbagliato di donne fantasma, basta una colossale sbronza in cui (ri)scoprirsi fumatore e in cui farsi riportare a spalla dagli amici, basta un pacchetto di fazzoletti da usare come fermaporta. Basta una fotografia con il flash a celare il volto scattata da Nagi allo specchio con quel cappellino appena regalato e non ancora perduto, ora e per sempre nella tasca di Sano. E poi basta quella frase, «Super happy forever», che come titolo di un seminario di cui portare ancora l’anello ha cambiato per sempre la vita dell’amico Miyata, e che invece per Sano vorrà per sempre dire solo la promessa di felicità perpetua di Nagi di fronte alla semplicità di una porzione di noodles istantanei con cui scoprirsi e dolcemente sedursi a vicenda. Con una corte rapida come gli ultimi giorni di una vacanza eppure discreta, poetica, di testa ben più che di corpo, guardandosi entrare nelle rispettive stanze per andare a dormire ma dandosi appuntamento per il mattino successivo, e poi mancandolo per ritrovarsi ancora quando tutto sembra perduto. Una relazione iniziata ritrovandosi a guardare insieme (e magari a fotografare in pellicola) una ragazzina addormentata alla stazione che senza svegliarsi riesce a riprendere al volo il suo smartphone con la stessa mano da cui le era caduto, e finita cinque anni dopo con un’inspiegabile morte nel sonno dopo la quale è impossibile trovare un modo di guardare avanti senza prima voltarsi all’indietro, per soffrire tutta la dolcezza del ricordo, per bere fino in fondo il calice della mancanza, per piangere ogni dettaglio più sublime di ciò che non si potrà mai più avere. Per cercare invano quel cappello rosso con la visiera che vuole dire tutto e che invece può non voler dire quasi niente o forse può voler dire tutt’altra cosa, come una promessa impossibile da mantenere o forse come una promessa mantenuta fino in fondo, fino all’ultimo letto rifatto, e poi ancora verso una nuova vita che ancora può guardare al futuro. Come se una piccola parte di Nagi in qualche modo continuasse a vivere, solo che nessuna delle parti in causa lo può sapere. Lo può sapere solo lo spettatore, e magari durante i titoli di coda sentire scorrere lungo la guancia una furtiva lacrimuccia.
Marco Romagna