Abbiamo tutti voluto bene a Kusturica, ma tanto bene, di quel bene che si vuole ad uno dei più importanti autori europei degli anni ’90, di quel bene che si vuole a qualcuno che riesce davvero a trattare la Storia come un sogno felliniano, di quel bene che si vuole a chi ti fa ridere e ti commuove in egual misura. Ma ormai è un po’ che l’autore serbo non riesce più a soddisfare, a farsi voler bene davvero. Non ci sono più i tempi della storia di formazione di Ti ricordi di Dolly Bell? (1981), la “storia d’amore (hi)storica” di Papà… è in viaggio d’affari (1985), la inter-europea intensità visiva de Il tempo dei gitani (1988), la grottesca visione dell’America de Il valzer del pesce freccia (1993) e soprattutto la maestosità a tutto tondo di Underground (1995) e Gatto nero, gatto bianco (1998). Già con La vita è un miracolo (2004) si è notata una forma di pseudo-manierismo che prende la guerra e la usa come sottofondo per un mondo finto-poetico in cui esiste solamente la morale onirica, con i suoi romanticismi spenti. È da qui che nasce Sulla Via Lattea (traduzione erronea di On the Milky Road, che vuole proprio dire “la strada di latte” e non è certo un riferimento cosmico: nel film letteralmente cade del latte per strada), in concorso a Venezia quest’anno, sicuramente tra i punti più bassi e noiosi dell’intero festival — ed è triste perché, appunto, Kusturica è un simbolo gitano di cinema, un’icona, un (ex?) grande regista. Il passaggio al digitale gli ha fatto male perché l’irrealismo delirante della sua filmografia è stato ormai scardinato fino alla non-esistenza di una sua credibilità: l’incubo felliniano e brillo a ritmo di musica balcanica è stato soffocato, ucciso, violentato dalla CGI ‘spixelante’ ed è stato tramutato in un qualcosa di poco credibile, di poco intenso, di poco sensato, e soprattutto di estremamente ripetitivo. Non è dissimile quello che è successo ad Alejandro Jodorowsky, che con film come La montagna sacra (1973) e Santa Sangre (1989) aveva creato un mondo marcescente, iconico, legato ad una visione totalizzante e unica, mentre con l’epoca del digitale si è persa la credibilità di ogni simbolismo; tuttavia il regista cileno è riuscito a trasportare il proprio surrealismo spiritualista in un’altra direzione, verso un’autobiografia poetica, un linguaggio forse più classico ma che penetra psicologicamente l’autore, il personaggio, lo spettatore con una profondità che forse mancava nei suoi film precedenti — e si può pensare a quella cosa incredibile che è il finale di Poesia sin fin (2016). Kusturica invece, che come il britannico Greenaway concepisce il proprio cinema grandguignolesco come un insieme di arti più che come un linguaggio unico, qui dice di aver deciso di “tornare alle origini” del cinema, dedicandosi ad esso come mezzo unico, semplice, diretto. Il risultato è probabilmente catastrofico come poche altre cose nella sua carriera e nel panorama cinematografico contemporaneo.
Il film comincia con la frase “tratto da tre storie vere e molte fantasie”. I protagonisti del film sono interpretati dallo stesso Kusturica e da Monica Bellucci: il primo è Kosta, un uomo po’ eccentrico e rincoglionito da quando hanno decapitato suo padre con una motosega di fronte ai suoi occhi (fatto accennato in una singola frase all’inizio del film e abbandonato), che per lavoro trasporta il latte da una fattoria alle trincee degli alleati durante una guerra fittizia e allegorica, muovendosi cavalcando un asino e portando sulla spalla un falco che è il suo migliore amico; la seconda è una fascinosa donna italiana detta la Sposa che viene “comprata” da Milena (che tiene la fattoria dove lavora Kosta) per farla sposare al fratello Žaga, eroe di guerra presto di ritorno. La Sposa è ossessionata da Quando volano le cicogne (1957) di Mikhail Kalatozov — un film che, ovviamente, non ha senso paragonare a questo e forse a nessun film di Kusturica. Milena, il personaggio più interessante del film (versione ennesima del personaggio femminile ubriaco e folle onnipresente nel cinema di Kusturica – pensiamo al ballo di Natalija sul carrarmato in Underground), è interpretata dalla bellissima Sloboda Mićalović e Žaga da Predrag Manojlović, già volto iconico di Papà… è in viaggio d’affari e Underground. L’ossessione che il regista sembra avere per la Bellucci (il suo sguardo, le sue rughe, la sua voce che canta in italiano, il suo corpo inadatto alla rappresentazione del simbolo dell’amore) sembra comunque battuta e sconfitta dall’ossessione che l’autore ha per sé stesso e per il proprio monoespressivo anti-fascino, per il proprio supereroismo parodistico che tenta di essere a volte tragico e a volte comico, senza alcun successo, mai. È come se cercasse sempre di conferire, sia al suo personaggio sia al mondo che lo circonda, un’eccentricità che però ormai è anacronistica, fuori luogo, inesistente, gratuita: piroette nel vuoto, onirismi vacui, è un anti-“panta rei” in cui le immagini sono infinite e velocissime ma, sostanzialmente, nulla scorre, nulla è credibile, nulla è emotivo. Kusturica mette sé stesso, sognatore volgare e fuori tempo, al centro di ogni attenzione e di ogni cura: sia Milena sia la Sposa si innamorano di lui, secondo una logica poco spiegata, perché lui è innocente e rappresentazione metaforica del bene del mondo, della bellezza in ogni cosa. Ed è lui, è Kusturica, non è Kosta, personaggio fittizio che poteva essere rappresentato da chiunque, ma è Kusturica, il più matto di tutti, l’eccentrico che “deve andare dallo psichiatra”, l’indifferente e inespressivo mostro dallo sguardo spento e ormai da tempo marcito. Ma Kusturica non è un bell’uomo, non è un personaggio affascinante, è un essere goffo il cui corpo (orecchie, gambe) sembra rigenerarsi come quello di una lucertola o di un personaggio di un anime; e la fauna che lo circonda e lo apprezza, quasi volendo dire che Kusturica (l’uomo, il regista) è un naturalista, un amico della natura, è una fauna in CGI, una natura plastica fatta di pixel, un mondo inesistente e privo di contatto umano, privo di contatto con gli elementi, e la forza vitale del sangue in cui sguazzano le anatre o il miracolo del serpente deus ex machina che beve il latte da terra sono solamente deliranti giochetti che lasciano il tempo che trovano.
E poi ci sono le scene acquatiche, che ricordano la nuotata subacquea alla ricerca del figlio in Underground ma con una quantità infinitesima di pathos, ci sono i rivali di guerra che sono stereotipati e stupidi (inseguono farfalle, guardano cartoni animati, palpeggiano alveari), ci sono momenti “poetici” imbarazzanti tra i protagonisti che volano e case che crollano al rallentatore. Abbiamo il cliché della cascata, ovviamente in CGI, che veniva trattato in maniera più intelligente dalla Disney ne Le follie dell’imperatore (2000), abbiamo una fuga che dura tre quarti d’ora in maniera più o meno movimentata, una fuga riguardo alla quale viene principalmente da pensare: «ma ce ne importa davvero qualcosa?»; questo perché il crescendo della prima parte del film, dedicato ad un intreccio soap-operistico che ricalcava alcuni pezzi di narrazione di Gatto nero, gatto bianco, scompare con il ritorno della guerra, ma invece di piombare nella tragedia vera, quella dell’epilogo di Underground, c’è la farsa, il petrolio, il fumo. È da anni, ormai, che personalmente considero la coerenza nella narrazione e la plausibilità narrativa un qualcosa di superficialmente importante nell’ordine generale delle cose in un film, ma non si può notare come ogni cosa della sceneggiatura di On the Milky Road sia sbagliata, irrecuperabile e tristemente incoerente, inutile, superficiale, dai concetti di base alla poesia dei piccoli momenti, dalla psicologia dei personaggi al susseguirsi degli eventi. È una narrazione che non esiste ma che crede di esistere, ha l’ambizione di essere qualcosa che non è. Citazioni all’Odissea, pecore che esplodono, anatre in fiamme che volano come fenici guardando in macchina da presa, moviola, musica balcanica (ma non è neanche Bregovic).
Infine, vogliamo ricordare che l’orientamento politico di Kusturica, che riscrive la Storia e si diverte a giocarci da sempre, è ormai vicino a Vladimir Putin, e che forse non bisogna prendere troppo sul serio neanche l’apparente discorso pacifista dietro On the Milky Road. Ci piace, anzi, pensare ad un’allegoria tutt’altro che probabile: il serpente che salva Kusturica e causa involontariamente la fine della Bellucci potrebbe essere Putin stesso, che salva il regista nel senso che questo fa ancora film, ma uccide la bellezza (o la poesia) di cui il regista è innamorato, quella cosa che riusciva a muoverlo e a fargli creare qualcosa di bello negli anni ’80 e ‘90. Invece, la gallina che salta ossessivamente di fronte allo specchio ci piace vederla come manifestazione di quello che sta facendo il regista: si sta guardando, e continua a guardarsi, ossessivamente, riflesso nello specchio, ovvero rappresentato come qualcosa che non è, qualcosa che è stato (un grande regista) ma che non è più. E infatti le uova cadono per terra, rovinosamente.
Nicola Settis