«Non mi uccise la morte, ma due guardie bigotte
mi cercarono l’anima a forza di botte»Fabrizio De André, Un Blasfemo
Era una scommessa estremamente audace quella di mettere in scena la vicenda di Stefano Cucchi, fra le pagine più atroci e antidemocratiche della recente storia italiana. C’era il forte rischio, affrontando una così grave e imperdonabile sospensione dello stato di diritto, di sconfinare nella retorica del film a tesi, e c’era quello ancor più grave di spingere le torture oltre il limite della pornografia del dolore mostrando anche ciò che sarebbe sempre meglio non mostrare. Ma a Sulla mia pelle, sorprendente opera seconda di Alessio Cremonini già scrittore per Saverio Costanzo e autore nel 2013 di Border, battere le vie del retroterra politico e della denuncia interessa relativamente. Ciò a cui il film punta, intelligentemente e con etica granitica, è piuttosto quella che è forse la sua unica declinazione possibile, ovvero la costruzione di un umanissimo percorso nella paura e nell’incubo che porti il pubblico all’identificazione nei tormenti patiti da Stefano Cucchi, al quale uno straordinario Alessandro Borghi, dimagrito di quasi venti chili per il ruolo, dona ogni suo sguardo e ogni centimetro del suo corpo. È lo sguardo di Stefano quello che la macchina da presa porta sullo schermo, lo sguardo di un morto che continua a vivere nella lotta per la giustizia della sua famiglia, lo sguardo di chi è stato selvaggiamente picchiato, privato dei farmaci e denutrito, lo sguardo di chi, totalmente paralizzato dal dolore e dalle lesioni interne, nemmeno riusciva più ad alzarsi dal letto. Sulla mia pelle si addentra nel suo calvario fatto di percosse e di cure negate, di movimenti di atroce lentezza e di una sofferenza insostenibile, di spasimi e di paure, in mezzo all’indifferenza di tutti quelli che avrebbero potuto evitarne la morte ma hanno preferito girarsi dall’altra parte. Tanto che, quando nella ricostruzione cinematografica Stefano verrà condotto nello stanzino della caserma sulla Casilina in cui “cadde dalle scale” fra i calci e i pugni dei Carabinieri/aguzzini protetti dalla non esistenza del reato di tortura, la macchina da presa dopo averlo seguito in manette per i corridoi in un lungo piano sequenza rimarrà pudicamente fuori dalla porta, per riconsegnarci Cucchi solo qualche ora dopo, già con quei famigerati lividi sul volto e sul corpo che nel giro di una settimana lo portarono alla morte. La violenza nei confronti di Stefano Cucchi è destinata a rimanere fuori campo, in Sulla mia pelle, così come fuori campo rimarranno i nomi degli uomini in divisa Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco (sospesi dal servizio solo nel febbraio 2017, rinviati a giudizio il successivo 10 luglio, quasi otto anni dopo il caso Cucchi, e ancora in attesa di una sentenza definitiva) accusati del suo omicidio e di aver inquinato le prove, quello di Roberto Mandolini al tempo capo della stazione Appia, quello di Vincenzo Nicolardi incriminato per calunnia, quelli dei medici inquisiti (e poi assolti per insufficienza di prove) per omesso soccorso e per abbandono di incapace, e non certo in ultimo le sconcertanti dichiarazioni di Angelino Alfano e Carlo Giovanardi, al tempo rispettivamente ministro e sottosegretario della Repubblica, pronti prima ad avvallare la versione della caduta dalle scale e poi, non soddisfatti, a calunniare una vittima di Stato parlando della sua morte per «anoressia e tossicodipendenza» fino alle doverose scuse formali alla famiglia.
Inizia il 22 ottobre 2009 Sulla mia pelle, prodotto da Netflix e presentato a Venezia nella sezione Orizzonti in attesa che il colosso dello streaming lo mandi in distribuzione il 12 settembre sia in sala sia per la visione domestica. Inizia quando gli infermieri del carcere/ospedale Pertini di Roma entrano nella cella di Stefano Cucchi per un prelievo trovandolo già senza vita, per poi tornare indietro di una settimana esatta, fino al giorno dell’arresto, e da lì ripartire nel suo detour nel tormento fino a tornare allo stesso punto. C’è la panetta di hashish che, già tagliata e divisa, costerà a Stefano Cucchi l’accusa di spaccio sommata a quella per possesso, ci sono i tre pezzi di cocaina nascosti nel suo calzino, c’è l’arresto in via Lemonia da parte dei più arroganti e violenti Carabinieri che saranno suoi carnefici, preterintenzionali quanto si vuole ma nel frattempo ben felici di insabbiare fino a ben oltre il possibile l’inusitata gravità del martirio perpetrato, c’è la perquisizione notturna e il più possibile umiliante nella casa a Torpignattara dei genitori di Stefano, e ci sono le pastiglie di Rivotril, fondamentali per la sua epilessia, ritirate accusandolo invece di possesso anche di ecstasy. C’è poi il pestaggio intelligentemente lasciato fuori campo, c’è l’udienza preliminare (con Cucchi rappresentato da un legale d’ufficio perché nel frattempo gli era stato negato persino il sacrosanto diritto di contattare il legale di famiglia) in cui è stato confermata la custodia cautelare in attesa di un processo che non avrebbe mai fatto in tempo ad arrivare, c’è il passato da tossicodipendente di Stefano lontano ormai da diverso tempo dall’eroina, e ci sono i suoi dolori, fra i lividi sulla schiena e quelli sul viso, fra le vertebre rotte dagli stivali dei suoi aguzzini e le lesioni al fegato e alla vescica alle quali attaccare il catetere, fra gli spostamenti da un ospedale all’altro per sottoporsi ai raggi e il non aiuto a mangiare che lo ha portato a spegnersi con il corpo al di sotto dei 37 chili, quando sarebbe bastato somministrargli un po’ di zucchero per evitargli l’ipoglicemia. Ma soprattutto ci sono le sue sofferenze psicologiche, ci sono le pressioni costantemente esercitate da parte del potere che lo teneva in custodia, c’è il suo ancestrale terrore nel denunciare le sevizie subite per paura di peggiorare ulteriormente la situazione, di prenderne ancora, e ancora più forti. Perché in Sulla mia pelle non contano tanto “i fatti”, non contano tanto “le cause”, così come di certo non contano “le colpe” o non colpe di Stefano Cucchi, e il punto non è nemmeno quel fango che sarebbe stato lanciato nei mesi e negli anni successivi alla morte contro Stefano e contro l’attivismo per ottenere giustizia della sorella Ilaria. Conta solo l’essere umano che soffre in ogni immobilità e in ogni movimento, conta solo il dolore di una famiglia tenuta all’oscuro e lontana dal figlio, conta solo l’angoscia di chi non può fare altro che subire, messa in scena con la giusta distanza, senza mai giudicare e senza mai santificare, lasciando intatte tutte le ambiguità. All’aggressività, uno Stefano Cucchi impaurito e annichilito non riusciva a rispondere se non chiudendosi a riccio, negando tutto, omettendo la verità e smettendo persino di mangiare per il dolore e per la paura, e solo di fronte ai più morbidi approcci di qualche infermiera e di Marco Fabrizi, detenuto nella cella accanto, ammetterà l’evidenza. Senza riuscire a ottenere nulla che non fosse il silenzio assordante di chi non vuole vedere né sentire. Forse l’avrebbe detta ai genitori e alla sorella, ma la macchina della burocrazia ha fatto in modo che durante quell’unica settimana/calvario in reclusione fosse per loro impossibile vederlo fra una carta mancante e una falsa promessa, fino a quando non sarà l’ufficiale giudiziario giunto a notificare alla madre l’atto per autorizzare l’autopsia a comunicare, nel modo più freddo e inumano possibile, l’avvenuto e improvviso decesso. Da quella sera in manette a casa, passando per quell’unico abbraccio con il padre al termine dell’udienza preliminare, la famiglia potrà rivedere Stefano Cucchi solo attraverso il vetro della camera mortuaria, con la voce rotta di Jasmine Trinca, straordinaria nell’interpretazione di Ilaria al punto da trovare una completa redenzione dopo l’esperienza non propriamente felice di Fortunata, a leggere fra i singhiozzi il freddo politichese e l’omertà generica delle carte che, autocoprendosi con un sostanziale falso in atto pubblico, quasi negavano i lividi e le lesioni o per lo meno le loro cause.
«Non sono credente, sono sperante» sono le parole che Cremonini mette in bocca a Cucchi/Borghi, e proprio in questa sua speranza, per quanto vana, sta tutta la forza al contempo vitale e mortifera di Sulla mia pelle. Che poi è quella stessa speranza e fede nella giustizia anche nella negazione di ogni giustizia che ha portato la famiglia Cucchi, in testa l’eroica sorella Ilaria, a combattere per fare emergere la verità, per vedere puniti gli aguzzini, per sbugiardare pubblicamente chi, per difendere i propri comportamenti criminali, ha scelto la via della menzogna e del fango lanciato sul «tossico e spacciatore morto di denutrizione» come se non fosse un essere umano, e come se non ci fosse nemmeno il minimo pentimento di fronte a ciò che gli hanno fatto. C’era un solo modo per portare all’attenzione dell’opinione pubblica ciò che è realmente successo a Stefano Cucchi: mostrarne la salma. Brandendo la gigantografia di quella foto, terribile e ormai famigerata, che lo ritrae sul tavolo dell’obitorio, le orbite segnate dai lividi ancora violacei, il volto sofferente, la bocca semiaperta in tutto il dolore di un uomo distrutto. Quella fotografia, esplicita eppure così lontana dalla pornografia nel senso profondissimo per cui è stata pubblicata ed esposta, ormai diventata simbolo, paradigma di ogni morto di polizia, volto di ogni uomo ucciso dallo Stato e messo sotto silenzio dall’omertà autoaccusatoria di chi salva le apparenze uccidendo gli esseri umani. Sulla mia pelle, in un certo senso, è la storia di quella fotografia, è la storia di quei lividi, è la storia di quel tormento, è la nascita di un’icona dal messaggio profondo e potentissimo. E non poteva che finire proprio con quella fotografia nelle mani della vera Ilaria, nel frattempo querelata da un Sindacato di Polizia totalmente privo di vergogna per «istigazione all’odio e al sospetto», mentre la registrazione della vera voce di Stefano Cucchi torna per riportare a quella prima e unica udienza rimessa in scena parola per parola mentre scorrono i titoli di coda. Rimettendo al centro il ragazzo, l’uomo, la vittima, il vero e unico punto di un film dall’umanesimo dolente, lontano da intenti manichei quanto vicino al cuore e allo strazio. È un film su Stefano Cucchi, ma potrebbe essere un film su Dax, su Carlo Giuliani, su Federico Aldrovandi, su Simone La Penna, su Riccardo Boccaletti, su Gabriele Sandri, su Marcello Lonzi, su Manuel Eliantonio, ma anche su Edo Parodi, ucciso in Svizzera anziché in Italia ma vittima degli stessi identici balletti di responsabilità scaricate fra falsità assortite e autopsie non di parte negate ai familiari. O meglio, Sulla mia pelle è un film su tutti loro. Su tutte le vittime di uno Stato che, dopo la prova generale di repressione e tortura attuata in occasione del G8 del 2001 a Genova, porta sulla coscienza centinaia di morti misteriose, nei carceri e nelle strade, proprio per mano di chi dovrebbe difendere i cittadini. Ed è a loro, a chi è morto della violenza dello Stato, che il film è dedicato. Con tutta la sua capacità di fare incazzare e di trasmettere l’emotività di un dolore fisico, l’empatia di una sofferenza, la dignità calpestata ma mai distrutta di un uomo strappato alla sua vita da una divisa.
Marco Romagna