SUITCASE OF LOVE AND SHAME (2013), di Jane Gillooly
Molte volte il cinema ha tentato la strada della sua ossessione più improbabile, ovvero quella del non farsi vedere – dal celeberrimo e celebrato Blue di Derek Jarman al misconosciuto e splendido Invisible di Victor Iriarte. È l’atto stesso del mostrare la propria traccia principalmente, se non solo, attraverso la parola, è l’invito a costruir(ci) un’immagine propria e privata, perché assente dallo schermo. Forse è anche questo che ha portato Jane Gillooly a portare in giro (o forse fuori) scena un dramma da camera sulla distanza incentrata sulla relazione adultera di due figure del Midwest statunitense degli anni Sessanta. Di questa storia esiste solo un diario intimo e vocale, fissato su nastro magnetico e acquistato dall’autrice quasi per caso su e-bay a meno di cento dollari. Lo spazio di questa narrazione non fa altro che costruire ed esaminare un’ossessione di cronaca, una storia d’amore, una relazione a distanza. È un collage uditivo che affascina e stordisce, smontato e rimontato dalle sessanta ore di nastri in cui il registratore diventa confidente, testimone, soggetto e partecipante della nascita (come della fine) di una relazione, e quindi ne dona, nello stesso atto, il senso del documentare e del commemorare. E allo stesso modo questo film sconnesso e atipico, presentato a tre anni dalla realizzazione al 34mo Torino Film Festival nell’ambito di TFFdoc/Love, diventa immediatamente la riflessione stessa sull’uso della registrazione – e quindi del segno stesso della parola – in un’America della diffidenza e della manipolazione come quella che dall’omicidio Kennedy, passando per il Vietnam, giungeva fino al Watergate.
Il nostro diventa uno sguardo voyeuristico e complice sul nulla, eppure in grado di penetrare questo nulla con tenerezza ed empatia, nel privato di un rapporto svelato come nella narrazione sperimentale del documento storico attraverso un puzzle informe di lettere audio, programmi tv, musica e molti rumori di un fondo sconosciuto. Appare subito alla mente la nostra coazione nel confessare le indiscrezioni nel mondo virtuale e digitale, come se la conversione mezzo secolo dopo avesse reso quasi normale e necessario ciò che allora pareva folle. E proprio la consapevolezza del doppio rapporto di quel voyeurismo tra interpreti e ascoltatori ci invita all’imbarazzo e al disagio come conoscenza di una trasgressione che si pone come doppia – la loro, come la nostra. Quella coppia del Midwest conosciuta come Tom e Jeannie, anime senza volto, la si sente parlare, bere, ridere, piangere, fare progetti per incontrarsi, fare l’amore. Ma soprattutto li si ascolta mentre assieme decidono di registrarsi. La perversione del loro appartenersi su nastro magnetico è la stessa che ci pervade appena li ascoltiamo. Così lo sguardo/ascolto rivelatore rispecchia più che mai la nostra ossessione corrente con la tecnologia nell’acquisire, documentare e condividere i nostri momenti personali. Anche i nostri diari di quotidiana virtualità, in fondo, oscillano fra libere associazioni, college di immagini astratte ed esperienze sensoriali sperimentali, ma accessibili anche ai fruitori di bacheca.
Ma qui il gioco di sentimento e vergogna, creativo e avventuroso, si ribalta perché l’immagine non c’è, o meglio loro non si vedono, vengono rappresentati continuamente nella compassione stessa dell’oggetto. Quella serie di registratori acquistati dalla regista (e qui sta l’ultima ossessione) diventano la sorgente e fonte di tutto ciò, trascendono la rappresentazione per diventare soggetto. Ognuno ha il suo nastro come gioco delle parti drammatico e scanzonato, come strumento cognitivo della conoscenza del loro rapporto. Poi, gli stacchi sui frammenti familiari dell’autrice, la luce che di taglio inonda le finestre di casa e la splendida sfocatura orgasmatica proprio nel momento del piacere che loro provano davanti al registratore. Essere guidati dal suono, anziché dalle immagini, richiede uno svelamento profondo, come l’ascolto di un dramma radio o la lettura di un grande romanzo impone l’essere all’interno e allo stesso tempo fuori dalla storia. O da questo film, dove stiamo in penombra ad ascoltare un’istallazione di vita, una qualunque ma fissata in un relativa eternità. Si possono muovere anche critiche a questo film, dal motivo dell’acquisto dei nastri, all’uso (scelta) delle immagini, fino al perché di quel scendere in quell’intimità. Ma se, invece, quei nastri fossero stati registrati proprio per altri, ovvero per noi? Se esistessero solo nell’atto di essere ascoltati, e dunque per cristallizzare un amore che mai diverrà reale? Nel film non c’è l’arco effettivo del tempo a venir rappresentato/raccontato, ma l’emozione deriva da un ascolto casuale ed epifanico dei materiali, come se a quella non finitezza di un rapporto dovesse appartenere anche la nostra. Intensificando l’esperienza, quella che poi porta alla retroproiezione dei personaggi e del loro amore talmente reale da essere quasi sconcertante, pare che siamo proprio noi stessi a parlarci ed ascoltarci. Il loro amore svanisce con l’ultimo nastro. Lui ora è morto, lei è viva. Ma in fondo, davanti al nostro orecchio e nel profondo nei nostri occhi, c’è poi così tanta differenza?
Erik Negro