SUBURBAN BIRDS (2018), di Sheng Qiu

Il giovane regista esordiente Sheng Qiu col suo debutto Suburban Birds compone un ritratto sensibile di una Cina sconsolata. Il mondo raccontato dall’autore gira attorno a una storia contorta: un gruppo di 4 ingegneri, tra i quali il vero protagonista è senza dubbio il giovane Hao, si ritrova ad analizzare un quartiere cinese che è stato travolto da un cedimento del terreno. Le strade sono desolate, gli abitanti della zona si aggrappano ossessivamente alla loro percezione degli eventi, e rimangono in cerca di qualcosa, che sia un cane sperduto (vero leitmotiv involontario del festival di Locarno 2018, tra An elephant sitting still o Tarde para morir joven o ancora McCarey con Part time wife) o un raggiungimento esistenziale o un codice da comprendere. Tra questi c’è una ragazza che si fa chiamare Rondine, che comincia a frequentare sentimentalmente e sessualmente Hao. Questi trova in un edificio un diario, e leggendolo si immerge nella vita di un bambino, chiamato anch’egli Hao; si appassiona alle sue storie e ai racconti legati al suo gruppo di amici, per poi capire che anche lui stesso è coinvolto nella storia. I bambini scorrazzano sereni per i boschi, si raccontano indovinelli e giocano, scoprono la loro sessualità e anche forse un’omosessualità repressa, canticchiando in coro inni maoisti con una nostalgia innaturale e apparentemente insensata. Nel raccontare due generazioni distanti alle prese con un singolo dramma multiforme e trasversale, Sheng Qiu si adatta allo spazio del racconto con una struttura a striscia di Möbius che enfatizza l’impenetrabilità dei personaggi dell’intreccio e lo squarcio traumatico delle loro vite: pur non penetrando mai davvero nelle motivazioni dell’interiorità dello Hao adulto, Qiu riesce a raccontarne lo sconforto in un mondo strappato e confuso mettendo a confronto la sua intimità con quella del suo “doppio” preadolescenziale. In un mondo senza adulti, la formazione e la crescita dell’individuo non possono che essere filmate con un distacco diverso, con un maggiore senso di individualità dei percorsi e con un’atmosfera idilliaca e infantile che mischia il mondo dei Peanuts a quello di A brighter summer day di Edward Yang. Suburban Birds altro non è che questo: un ambizioso e poetico macigno di riflessioni politico-esistenziali per riunire due mondi distanti sotto la stessa calotta protettiva e simbolica di ermetismo. Ci si può chiedere se l’ambizione sia più affascinante o più deludente, ma l’impatto che suscita è inequivocabilmente quello di uno sguardo complesso e indipendente rispetto al cannibalizzante sistema industriale del cinema, che predilige il racconto del reale visto mediante il filtro del realismo retorico, mentre Qiu predilige un’irrealismo che funziona per libera associazione di idee in un flusso di eventi frammentati che ha tutta l’aria di seguire a sua volta una specie di flusso di coscienza.

La regia di Suburban Birds è uno dei suoi aspetti più interessanti. Qiu comincia il film andando per lunghi piani sequenza, con panoramiche e zoom che scompongono il ritmo e la geografia della scena, costruendo lo spazio empatico dei personaggi a suon di ingrandimenti e allontanamenti. Questo accade per buona parte della trama dedicata a Hao: ciò che è strettamente reale, il presente “ufficiale” del protagonista, ha dunque una messinscena basata sulla ricostruzione, con uno stile simile a quello intimista e umile del coreano Hong Sang-soo, ma l’approfondimento drammaturgico dell’inquadratura è qui sostituito da un approfondimento teorico e di sguardo. Quando Qiu zoomma o dezoomma lo fa per conferire compattezza alla composizione narrativa e concettuale di un evento; il movimento di macchina diventa lo specchio per seguire Hao nel suo mondo, nel suo corpus, nelle sue occhiate verso gli altri o l’altro. Il mestiere dell’ingegneria richiede accortezza matematica e una serie di strumenti che diventano McGuffin di un paese costantemente sull’orlo della crepa. Quando Hao comincia a leggere il diario, lo stile del film cambia drasticamente, includendo in sé una complessificazione del linguaggio. Le inquadrature non hanno più la stessa tipologia di progressione costante verso l’interno o l’esterno di uno sguardo, ma, concentrandosi sullo Hao più piccolo e sul suo gruppo di amici, la macchina da presa viaggia nel continuum spazio-temporale e squarciandolo diventa più libera. Insomma, il suo scopo linguistico si sposta e comincia una galleria di immagini infantili che fluiscono l’una nell’altra con naturalezza. Alla fine questa sezione è più un ritratto di un mondo che una costruzione narrativa, e Qiu si concentra sul creare il più possibile un distacco registico con la parte precedente. Più si ravviva il dramma all’interno dell’intreccio, più ci si avvicina al terzo atto e al ritorno dello Hao adulto. Lo stile del film, ora drasticamente compromesso dalla parte centrale che scombina le carte in tavola, comincia a barcamenarsi in modo coeso ma difficile da seguire tra l’originale ma rigorosa pseudo-fissità della prima sezione e l’estro creativo ed emotivo della seconda. Il film comincia a farsi enigmatico, e una lunga inquadratura che presenta una mezza figura di Hao che piange durante il proprio compleanno rivela in maniera definitiva e definita l’identità del film stesso, il cui fulcro è tanto lo scarto generazionale quanto il funzionamento della mente di Hao e la sua perdita dell’innocenza e dell’equilibrio. Il diario è una rappresentazione verbale sia del presente sia del passato, e con questa sovrapposizione tra linee temporali Qiu costruisce un film che è anche un paradosso di narrazione. La verità probabilmente è che la chiave sta nel fuori campo, nello sguardo verso l’alto, ricerca di assoluto che diventa ampliamento del Sé per avvicinare la libertà, in quello che l’inquadratura non può comprendere quando Hao durante un sopralluogo in una caverna guarda effettivamente verso l’alto e non abbiamo un controcampo che possa completare la visione, ma solo la nuca del protagonista, che con la sua freddezza inespressiva esprime il dilemma del non poter visualizzare davvero questi ‘uccelli suburbani’.

La verità è che Suburban Birds è un esordio a dir poco peculiare. Spesso, al Locarno Festival, gli spettatori si trovano a incontrare per la prima volta autori emergenti, alla presa con l’ardua necessità di cominciare la propria carriera con qualcosa che possa essere nel contempo soddisfacente per l’autore e gradevole per il pubblico festivaliero. Perciò, spesso, si creano gli stereotipi dei “film da festival”, e per molti versi Suburban Birds rappresenta pienamente le esigenze interne di questi stereotipi. Il fatto che sia un film di per sé ellittico, privo di risposte e gremito di domande, non facilita una classificazione tradizionale. L’esordio di Qiu ha dunque l’apparenza di un lavoro acerbo e privo di direzione, ma nel nostro caso emerge il sospetto che l’assenza di direzione possa coincidere con al contrario una stratificazione complessa, in cui i richiami culturali interni compongono un puzzle sottile, come in The Terrorizers sempre di Edward Yang, un “film postmoderno definitivo”. E come la nouvelle vague taiwanese si costruiva attorno a labirinti simbolici minimali, analogamente Qiu forma il proprio cosmo interrotto di ossessioni politiche e psicologiche talmente fitte da richiedere da subito una seconda visione per creare un po’ di ordine nella matassa. Il binocolo, che essendo uno strumento dell’ingegnere è anche allegoria dello sguardo del regista, esemplifica la logica dello zoom; si perde, si ritrova, e nel sogno-flashback, quando il gruppo di amici si disgrega un membro per volta (cristallizzando chiaramente il processo di amnesia nei confronti delle figure dell’infanzia tristemente comune in tutti gli uomini), si ritrova e diventa arma autodistruttiva, che blocca la memoria e annulla l’esistenza dell’individuo, ad esempio. Ma se ci chiediamo perché, sembrano mancare troppe informazioni. Subentra il dubbio: è ambizione o pretenziosità? Non è forse il caso di rispondere, è meglio ammirare l’enigma, lasciarsi cullare dalla confusione sperando di poter provare a penetrare nuovamente in quest’indovinello insoluto in futuro, in attesa dei prossimi sforzi registici di Qiu, che potrebbe rivelarsi un grande autore come un fortunato mezzo bluff. Ma quando sul finale di Suburban Birds gli “uccelli” divengono spiriti della foresta, visibili solo tramite il simbolo del cannocchiale attraverso gli occhi di due amanti sconosciuti che sognano in silenzio beati nella natura, i sentimenti positivi sovrastano quelli negativi: il cinema è anche questo, con la vittoria incontrastata del noumeno su tutto.

Nicola Settis