STREETSCAPES (2017), di Heinz Emigholz
“Un esperto è un uomo che ha smesso di pensare. Perchè dovrebbe pensare? Lui è un esperto!”
Frank Lloyd Wright, architetto
Spesso, sia nell’arte sia nel cinema, si parla di percorsi, di tracce da perseguire con coerenza linguistica ed etica per studiare, collocare, far emergere realtà estremamente complesse, pensando continuamente all’esperienza sensibile che le attraversano. Heinz Emigholz, nella storia recente dell’immagine e del movimento, è sicuramente una firma riconoscibilissima, uno di quegli autori senza dubbio legati alla ricerca di una traccia ben definita all’interno del secondo Novecento. Appassionato di architettura e di paesaggi, vicino alla corrente sperimentale amburghese (dunque distante dalla forma narrativa – seppur nuova – della Junger Deutscher Film di Oberhausen), uomo mite e rigoroso, ci insegna da più di quarant’anni come cercare di guardare i luoghi che attraversiamo ogni giorno. Il suo ultimo lavoro/progetto è questo Streetscapes presentato nella sezione Forum della Berlinale 2017, fatto (per ora) di quattro mo(vi)menti, di forme vecchie e nuove; momento di una vita (e di una carriera) in cui forse c’è bisogno di mettere dei punti per poter razionalizzare il percorso stesso, nella necessità di vedere un orizzonte futuro.
2+2=22 [The Alphabet] è sicuramente la sezione più sperimentale dell’intero progetto. Siamo a Tbilisi in Georgia, l’estate di tre anni fa. Tra i marciapiedi usurati e i frammenti di alberi che magicamente compaiono tra i calcinacci, lo scenario è quello di una città cacofonica ma viva, in cui le strutture si intrecciano senza lasciare la minima idea di definizione. All’interno di una sala prove quasi futurista , i Kreidler (band post-rock di Düsseldorf) stanno registrando. Le geometrie del soffitto si fondono con il groviglio di cavi tra gli strumenti, i musicisti non comunicano con le parole, la sessione di prove è una specie di timida germogliazione in cui non si fabbrica musica, ma si costruiscono suoni alla ricerca di una possibile sintassi nuda della (non) forma canzone. Il controcanto a queste due architetture (quella fisica e quella sonora) è l’alfabeto stesso ritratto attraverso i diari del regista (e il fuori campo parlato di Natja Brunckhorst), composti da fotografie, articoli di giornale, scarabocchi, biglietti, appunti e ricordi tutti. Le lettere si son fatte alfabeto, i suoni musica, gli edifici città, mentre le linee spigolose dell’architettura si fondono con l’architettura musicale.
Bickels [Socialism] pare quasi un ritorno all’ordine di Emigholz, nei territori più vicini a tutte le sue ultime opere. Ora siamo San Paolo, Brasile, nell’ ottobre 2016, davanti alla Casa do Povo, icona sia del movimento operaio sia del popolo ebraico migrato in Sud America. Qui lo scenario si manifesta abbandonato, quasi archeologico, forse anche per questo punto di partenza fondamentale per la ricerca di possibili tracce nell’opera di Samuel Bickels. Si tratta in maggior parte di architettura ad uso sociale sotto forma di kibbutz (sale da pranzo, case per bambini, edifici agricoli, strutture luminose pulifunzionali, ecc ecc) strutturate in modo straordinariamente armonico con il paesaggio mediterraneo. Ora questi ventidue edifici sono per lo più abbandonati, come il declino storico degli ideali socialisti che incarnavano, ma si pongono come narrazione di una vita – di Bickels, di Emigholz – attraverso le opere architettoniche. In conclusione, la digressione sui dipinti di Crimea di Meir Axelrod che raccontano della tragica fine del kibbutz di Vio Nova in Palestina, mutilato tra una guerra e l’altra. Perché spesso sono le storie a fare la storia, purtroppo.
Streetscapes [Dialogue], giá dal titolo, è il cuore pulsante dell’intero progetto, una messa a nudo cerebrale utile come non mai ad interpretare in maniera coerente il lavoro di Emigholz tutto. Più che ad un’intervista siamo davanti a una confessione, quasi a una seduta analitica, in cui si scava a fondo nel processo creativo sempre a contatto con la stasi artistica e la forza espressiva. Siamo in Uruguay (intorno agli edifici di Vilamajo, Dieste, Brandlhuber ed Erdman), e confrontandosi con Jonathan Perel l’autore ripercorre la sua parabola inventiva tornando a contatto con il senso più profondo e personale dell’interpretare il cinema in quel modo così unico e particolare. Attraverso ellissi continue e falsi raccordi di montaggio, si dipana un dialogo unitario, sorta di piano sequenza verbale, e il risultato della conversazione diventa un flusso realmente affascinante in cui il soggetto spesso è oggetto e la figura in primo piano ha la stessa valenza di quella sullo sfondo. Non è tanto lo spazio che il pioniere tedesco cerca di rappresentare, ma soprattutto il tempo, la sua imbarazzante relatività che lo porta spesso a guardare il proprio orologio costantemente fermo. Proprio da questa conversazione urgente e necessaria si arriva all’idea della possibilità di realizzarne un film, proprio il film che stiamo vedendo.
Dieste [Uruguay] è l’epilogo della serie, a suo modo esso stesso diviso in una specie di trittico. Siamo a Montevideo con le strutture di Julio Vilamajo, ispiratore dello stesso Eladio Dieste a cui sarà dedicata la parte più corposa e centrale del film. In un arco di circa quaranta anni gli edifici che adornano la città appaiono sorprendenti per la loro organicità e per l’eleganza delle curve in cui la macchina di Emigholz pare galleggiare con inconsueta grazia, accarezzando ogni taglio di luce, esaminando l’ambiente circostante e riscrivendo il concetto stesso di spazialità degli edifici. Ma quella leggerezza (riconquistata anche grazie anche alle parole sopracitate) si perderà quando la camera si sposta verso le vicine aree industriali completamente abbandonate, cattedrali archeologiche del lavoro in preda a tonnellate di rifiuti che a montagne ne ridisegnano le forme. La chiusura è affidata a una piccola digressione spagnola in cui si mostrano gli ultimi lavori dello stesso Dieste, modellini di chiese estrapolati dal contesto, quasi musealizzati, preservati. Come se la resistenza, anche dell’arte più visibile, fruibile e vivibile, debba per forza passare attraverso un processo di conservazione riproducibile ed asettico.
In definitiva questi più di quattrocento minuti complessivi mostrano un umanissimo rapporto con la forma e con le forme, con il paesaggio e con il linguaggio, con il suono e con l’immagine. Emigholz ci porta ancora una volta in territori estremamente stratificati e ce li fa riflettere, abbandonandoci al suo sguardo o interpretando man mano ciò che stiamo vedendo (indispensabili a questo punto anche le note di regia, a cui io stesso mi sono ampiamente affidato nel tentativo abbozzato di raccontare questo progetto). La topografia del mondo, in fondo, non è nient’altro che quella delle anime che lo attraversano. Perché non approfittarne?
Erik Negro