STRADE PERDUTE (1997), di David Lynch
È la prima giornata ufficiale del 69esimo festival del cinema di Locarno. Il Sole batte sull’asfalto del park & ride vicino alle scuole, la pioggia si teme ma non arriva, si brinda ad un Festival di successo alla festa d’apertura con vino, succo di frutta e indimenticabili polpette. C’è una premiazione, c’è qualche fraintendimento tra amici e colleghi, ci si perde e ci si ritrova. E, tendenzialmente, ci si ritrova in sala. Tra le prime proiezioni vissute dalla redazione di CineLapsus per questa edizione del festival v’è stata quella di un classicone di uno dei più grandi registi americani (e non) contemporanei (e non), Strade Perdute di David Lynch, un film che probabilmente conoscevamo a memoria ma che non può che riservare ad ogni visione un qualcosa di diverso, aggiungendo sempre pezzi al puzzle, come sicuramente vale per tutti i lungometraggi di Lynch dal più maestoso al più sgangherato – e, tra sguardi in macchina fugaci e colonne sonore da riscoprire, vi sono state svariate prove di quanto ciò sia un pregio unico del cinema dell’autore, che è sempre più vorticoso di visione in visione, ma ciò non può che aumentare il fascino della sua opera. Di certo ha aiutato a partorire nuovi pensieri anche una copia in 35mm davvero illuminante, da i momenti più rovinati alle intensità dei neri e dei bianchi che c’hanno ricordato sia gli spazi di Hitchcock, che abbiamo “riscoperto” al Cinema Ritrovato di Bologna in svariate occasioni, sia la luce tagliente dei film in pellicola più sperimentali e oscuri. Il film è stato preceduto da una breve presentazione di Bill Pullman, protagonista premiato alla carriera dal festival, e nonostante lui non sia tra i più grandi attori americani di ogni tempo, ha dimostrato, nel discorso di accettazione per il premio, di essere interessato al tipo di recitazione che fa “scomparire l’attore all’interno del film” – cosa che lo rende in effetti da subito vicino a Lynch e al personaggio che ha interpretato sotto la sua direzione.
Strade Perdute, in teoria, è il primo film della cosiddetta trilogia dell’inconscio dell’autore, continuata con Mulholland Drive (2001) e INLAND EMPIRE (2006) e probabilmente legata a tutti gli altri film dell’autore, a partire da tutti i frutti del progetto Twin Peaks e da Velluto Blu (1986), con Eraserhead (1997) come ideale prologo. Ma, da un certo punto di vista, la grandezza della trilogia dell’inconscio sta anche nel fatto che, oltre a connettere una visione freudiana dei rapporti sessuali a un’estetica che è probabilmente la più iconica del surrealismo cinematografico dai tempi del primo Buňuel, la trilogia ha come base una visione della mente umana non tanto legata al funzionamento effettivo delle relazioni quanto a un gioco metacinematografico infinito e pieno di sorprese, con un frullato di piani di realtà che lascia a riflettere a lungo. Strade Perdute, essendo il capitolo fondante dell’operazione, ha a suo carico la responsabilità di introdurre i concetti, poi approfonditi nei film seguenti. Tuttavia, ciò non toglie valore o complicatezza al film, che anzi, più che un’esperienza propedeutica a quelli che sono probabilmente i capolavori del regista, si propone come un ingranaggio a clessidra di una violenza espressiva devastante. La trama è ben difficile da spiegare, e al contempo è relativamente nota, ma provando a riassumere: Pullman interpreta Fred Madison, sassofonista jazz in crisi con la moglie Renee (una grande Patricia Arquette) che probabilmente lo tradisce. La coppia comincia a ricevere ogni giorno inquietanti videocassette da fonti anonime contenenti registrazioni disturbate della loro casa, esterni e interni – la violazione del domicilio, dell’intimità, della realtà. Dopo un uxoricidio (fuori campo e poi visto attraverso le VHS anonime) in un momento di non lucidità, Fred, imprigionato e condannato a morte, viene “sostituito” misteriosamente nella propria cella da Pete (Balthazar Getty), un giovane meccanico losangelino che non capisce cos’è successo e vive una quotidianità sostanzialmente opposta a quella di Fred.
Il gioco inizia con una frase chiave pronunciata da Fred mentre i detective cercano di capire come può essere entrato qualcuno a filmare in casa Madison: «Non posseggo una videocamera perché preferisco ricordarmi le cose per come sono successe». Oltre all’essere un antieroe inetto e represso, Fred è sine dubio un uomo che non accetta il cinema e non accetta la sua presa nella vita, non accetta il fatto che lo sguardo delle persone sia, a modo suo, ormai uno sguardo cinematografico. Per questa ragione il voyeurismo delle VHS anonime è come un fantasma che lo perseguita, un tragico e inquietante promemoria della sua prigionia, ma non nella cella del carcere, bensì in quella dell’essere un personaggio fittizio. Umiliato sessualmente da Renee con una pacca sulla spalla che riassume drammaticamente tutta quest’inadeguatezza erotica, Fred le racconta un sogno, in cui lui è in casa e lei urla il suo nome, ma quando lui giunge a letto a trovarla capisce che la donna davanti a sé non è lei. Nel raccontare il sogno, il sogno si verifica e Fred si sveglia, come se l’atto del raccontare fosse il sogno stesso: e questo non è che un qualcosa che può essere fatto dal cinema, mettere in atto e in scena visioni, sogni, con l’arte del raccontare. Per questo quello di Fred è un incubo: non è tanto il fatto di non riconoscere Renee a letto, quanto il fatto che lui debba raccontarlo e dunque farlo mettere in scena cinematograficamente.
Incapace di sopportare l’essere in basso rispetto agli altri, dunque indignato sia dalle VHS che lo riprendono da un punto di vista vicino al soffitto sia dal detective che lo osserva attraverso la finestra sul tetto, Fred incontra ad una festa in piscina dell’amante di Renee la figura più iconica del film, il cosiddetto Mystery Man. Inizialmente inquietante e invasivo e poi progressivamente sempre più cupo in maniera sottocutanea, Mystery Man (interpretato da Robert Blake, curiosamente accusato di uxoricidio pochi anni dopo proprio mentre nelle sale arrivava Mulholland Drive) diventa verso la conclusione un alleato di Fred contro il “male” di Dick Laurent/Mister Eddy, “antagonista” sui generis, secondo Slavoj Zizek ennesima reinterpretazione della figura del “padre alternativo osceno” nel cinema lynchano dopo i vari Frank Booth e Bobby Peru. Del resto, Mystery Man è la manifestazione più spudoratamente autocritica del cinema e del suo voyeurismo, pagliaccio sadico che entra nelle vite delle persone e che è capace di essere in più posti contemporaneamente, come se fosse egli stesso un taglio di montaggio in un videoclip. Dopo la festa, Fred arriva a casa e vede delle ombre, e subito pensa alle persone che, filmando, violano la sua privacy. All’interno della casa, Fred ha due momenti di crisi che lo portano all’uxoricidio: il primo è un triste e disperato sguardo in macchina nel buio della casa, cosa che accende in lui una consapevolezza maggiore della sua condizione e che quindi, automaticamente, devasta la sua visione del mondo; e il secondo è il momento in cui Fred si specchia e, sentendo Renee che lo chiama come nel sogno, capisce che tutto è riflesso, che tutto si ripete, che tutto è vero e nel contempo tutto è finto – no hay banda.
Il resto del film è una drammatica e lunga lotta interiore con l’accettazione di questa realtà irreale: i mal di testa e le emicranie, la luce, le canzoni, le visioni. Creare una realtà parallela, creare sogno, creare cinema: viene messo in scena l’immaginario di David Lynch, il suo modo di procedere nella narrazione, i suoi scarti e le sue geometrie. La sostituzione con Pete è dunque più che altro una trasformazione, che si svolge solo e unicamente nella testa di Fred, una specie di proiezione mentale di quello che lui non potrà mai essere: giovane ancora, rilassato, con una vita sessuale attivissima (anzi, è lui l’amante invece che il partner fisso, il traditore invece che il tradito, colui che «ha visto più fiche di una tazza del cesso»). Però non sopporta più il jazz, è impulsivo ed egoista nei confronti dell’amica/fidanzata Sheila: è un opposto a tutti gli effetti. La clessidra si stringe, ma si riapre. E si riapre prendendo i toni, sia nei dialoghi sia nella regia e nel montaggio, di un film noir a metà tra il classico e il fighettino anni ’90, tra il metal dei Rammstein, l’industrial dei Nine Inch Nails, il synthpop degli Smashing Pumpkins, deliranti canzoni blues di Marilyn Manson e musica porno; dunque confermando un cambio mentale, il cinema è accettato e con esso la sua bellezza, la possibilità della rappresentazione di una vita soddisfacente. Tutto ciò lentamente collassa, con l’inserimento di Dick Laurent/Mister Eddy, la cui compagna Alice, attrice porno uguale e identica a Renee, presto comincia una relazione proibita con Pete. E vedendo che il mondo gli collassa addosso, Pete sfrutta Sheila come oggetto sessuale perché innamorato di Alice che però non è sempre disponibile. La musica porno si mischia alle note composte da Badalamenti, lo squallido sguardo voyeuristico (quello che voyeuristico è davvero) si mischia al pathos, quello che per Fred è inquietante diventa il suo intenso, drammatico mondo. Non può scappare dai propri demoni neanche se li spinge al fondo della propria visione. Abbandonato dai genitori e dagli amici, Pete ha solo Alice e la possibilità di scappare con lei da tutto e da tutti, e nel mentre si macchia di omicidio e il suo mondo continua a distorcersi, ad essere più sanguinolento e cupo, tra gli occhi di Patricia Arquette che si riempiono di espressività delle bionde protagoniste dei capolavori di Hitchcock – in particolare la scena di sesso di Marnie – e momenti sfocati e disorientanti. Dopo un ultimo rapporto sessuale paradisiaco con Alice nel deserto, illuminati dagli accecanti fanali dell’audio che trasformano il loro amplesso in un incrociarsi celestiale di luci, lei lo respinge («You’ll never have me») e lui ritorna ad essere Fred, il sogno si dirada, il personaggio regredisce nella realtà.
Ma la realtà qual è? Durante la sezione del film dedicata a Pete, le indagini della polizia continuano e non smettono quando Pete ritorna ad essere Fred. Ciò significa dunque che quello che si è svolto davanti ai nostri occhi è la realtà, o meglio la realtà che si svolge all’interno di Strade Perdute: una realtà irrisolta e incompleta in cui tutto può succedere, l’importante è che venga filmato, che venga osservato. Fred rapisce Mr. Eddy e lo uccide con l’aiuto di un Mystery Man deus ex machina, che porge al protagonista un coltello che altro non è che un macguffin estremo. Fred torna a casa propria e comunica al citofono: «Dick Laurent è morto». La stessa frase, Fred l’aveva sentita al citofono all’inizio del film: la clessidra, o striscia di Moebius che dir si voglia, è destinata a ripartire e a ricominciare, Strade Perdute è inevitabilmente destinato alla seconda visione, e poi alla terza, e poi ancora. Inseguito dalla polizia, Fred ha degli spasmi come preso da una scossa elettrica: è la sua condanna a morte che finalmente è arrivata, mentre le sue proiezioni mentali stavano prendendo la meglio su di lui, e tutta la sua vita si è conclusa, con un raggiungimento conclusivo della consapevolezza del cinema nella vita proprio con questo eterno ritorno dell’eguale, cupo e mutevole. E sui titoli di coda, ricomincia la canzone presente anche all’inizio, I’m deranged di Badalamenti con voce di David Bowie, e, tra il ricordo del cantante che da poco ci ha lasciati e la grandezza iconica della canzone e dell’inquadratura in continuo movimento dell’autostrada illuminata, salgono i brividi, scendono le lacrime. E la luce del Sole di Locarno, quello vero, continua a splendere, e la luce degli schermi pure. Di film straordinari.
Nicola Settis