STORIE DI CAVALLI E DI UOMINI (2013), di Benedikt Erlingsson
“Cosa sarebbe stato dell’umanità senza il cavallo? Il grande Cesare, Alessandro il Grande, i grandi di Spagna… Sarebbero stati veramente grandi senza il cavallo? Questa nazione sarebbe mai nata senza il generoso aiuto di questo nobile animale? E qual è il miglior modo per sdebitarsi se non quello di offrir loro un pascolo grasso e tranquillo dove potersi nutrire e procreare in pace?”
Maggiore Harriman, Lo chiamavano trinità
Gli occhi dei cavalli e quelli degli uomini sono in realtà molto simili. Si cercano a vicenda, si specchiano, deformati come riflessi su un mondo, si trovano, si attraggono, si adorano. Il loro rapporto è quasi simbiotico, l’indipendenza domata, la fedeltà e le carezze, le corse e le briglie, fino all’inevitabilità della morte, forse l’unica possibile via d’uscita da un amore così grande. Benedikt Erlingsson, già noto come attore (anche per Lars Von Trier, ne Il Grande Capo), sceglie per il suo esordio dietro alla macchina da presa le sterminate piane islandesi, mettendo in scena con lucida brillantezza l’umanità dei cavalli e la bestialità degli esseri umani. Storie di cavalli e di uomini, uscito in Italia il 19 novembre con distribuzione PFA, è un mosaico di cinque microstorie nel quale il rapporto ancestrale fra uomo e animale si traveste da commedia nera e scorretta -fra tabacco da fiuto, taniche d’alcool e sesso liberatorio sui prati- per indagare tutto il primitivismo, tutta la natura animalesca, tutto l’autolesionismo e tutta l’istintualità, a volte tragica, dell’essere umano.
Con dialoghi ridotti all’osso, reazioni esagerate a metà fra Buster Keaton e Willy il Coyote, campi lunghi mozzafiato che fanno della Terra dei Geyser una reale protagonista del film ed un gusto per il surreale di algido cinismo squisitamente nordico -viene in mente in tal senso la fissità sardonica dello svedese Roy Andersson, la commistione fra commedia e tragedia che già fu motore di Nòi Albìnòi (2003) di Dagur Kàri, fra i pochi film islandesi giunti in Italia, ma anche la stravaganza del primo, finlandese, Aki Kaurismaki-, il rapporto fra gli uomini e i cavalli vede nell’alternanza degli episodi messi in scena tutte le proprie sfaccettature, dall’amore alla gelosia, dall’amicizia alla soddisfazione degli istinti più bassi, dal coraggio alla ricerca di un riparo, dall’affermazione personale al tradimento. L’uomo, infatti, può contare sull’animale, può spingerlo verso qualsiasi avventura, può salirgli in groppa e farsi salvare la vita, ne ha bisogno per sopravvivere al mondo e a se stesso. Ma l’uomo, questo provvidenziale cavallo, può anche decidere di ucciderlo, che sia un raptus di frustrazione, la perdita di valore o ancora la sopravvivenza, con la necessità di stare al caldo. Quella messa in scena da Erlingsson è un’umanità di fatto prepotente, non di rado stupida, apice di un necessario ribaltamento dei ruoli: chi è che, in piedi sulle quattro zampe, dimostra fedeltà e amicizia persino oltre oltre l’umana pietas? E chi è invece l’animale, la bestia che risponde solo ai propri istinti dimenticando il resto del mondo, pronta a uccidere e uccidersi per la propria triste inadeguatezza, per il proprio innato autolesionismo, per la propria incapacità di controllarsi?
Fra la guida che perde gli occhi per tagliare il filo di ferro che occupa il sentiero nazionale e il contadino che precipita con il trattore durante la conseguente corsa folle per difendere il proprio steccato, la differenza è ben poca: entrambi sono uomini, ma entrambi, animalescamente, si dimostrano incapaci di parlare e trovare soluzioni civili, entrambi sono incapaci di prevedere le tragiche conseguenze delle proprie azioni, entrambi agiscono d’impulso e perdono qualcosa di importante, chi la vista, chi la vita. Del resto, che sia il cavallo o che sia l’uomo, qualcuno deve necessariamente morire, lasciare dolore, trovare sepoltura. Dalla giumenta che si accoppia allegramente con lo stallone, frustrazione massima di un amore fra padroni che si ostina a rimanere platonico, all’uomo che spinge a nuotare un ronzino verso una barca russa alla ricerca di vodka, trovando invece taniche di alcool puro e il fegato in fiamme, passando per il pony che, in una sequenza magistrale in grado di ricordare per disperazione Essential Killing di Jerzy Skolimowski, funge da riparo al viandante durante la tormenta, gli uomini e i cavalli si uniscono in un rapporto sempre più stretto, ora di ferrea dominanza ora di intima tenerezza, un confronto continuo, intere vite in comune, racchiuse nelle immagini deformate riflesse negli occhi. Se, infatti, viene più volte e duramente ricordata la natura bestiale dell’uomo, trovano spazio anche momenti di idillio con la natura, con la giovane amazzone svedese che riesce a domare ben sette ronzini conquistando la fiducia di una comunità retrograda e sessista.
Gli uomini e gli animali non sono così diversi, sembra volerci dire il film, anzi parrebbe piuttosto essere l’uomo la vera bestia, ma a dispetto di queste premesse Storie di Cavalli e di Uomini non è certo un pamphlet animalista: fra colpi di fucile, pony sventrati e stalloni castrati, il regista dissimula nel perfido cinismo e nel distacco più gelido il proprio scoramento per un’umanità che non fa altro che buttarsi via. Con modalità quasi fantozziane, quella di Erlingsson si rivela come una commedia nera di inaspettata lucidità, pronta a ridere con umanità straziata della propria carrellata di sconfitte e ipocrisie. Fra funerali, bevute e cavalcate, il film procede come circolare, a testimonianza di una ripetitività che è ogni giorno nuova scoperta, emozione, forse vittoria, forse sconfitta. Come un riflesso deformato sull’occhio di un cavallo, l’uomo si avvicina con il morso, pronto a prendere il comando. Sarà dura convivere, ma è già amore a prima vista.
Marco Romagna