STILL RECORDING (2018), di Saeed Al Batal e Ghiath Ayoub
«Sii paziente, mia patria!»
Scritta su un murales
C’è una scena particolarmente agghiacciante verso la fine: durante un’intervista effettuata camminando, all’improvviso una raffica colpisce l’intervistato che cade a terra. Anche la camera cade al suolo, continuando a filmare, senza riuscire però a inquadrare che piedi di cadaveri.
Still recording è firmato da Saeed Al Batal e Ghiath Ayoub, siriani, neanche trentenni, il primo regista e visual artist con esperienza nel campo della produzione video, il secondo giornalista, fotografo e regista. Ma a inizio riprese c’erano molte altre persone che hanno avuto ruolo nel film, fra cui l’operatore colpito in quella scena e morto poco dopo. Still recording, però, non lo dice in modo esplicito, per evitare sensazionalismi ma anche perché l’operatore è solo una delle tante persone, amici e conoscenti, collaboratori e sconosciuti, uomini e donne, che sono stati ripresi e poi caduti in una guerra sanguinosa, cieca, furiosa, spietata. Una guerra che entra di prepotenza in un lavoro che nasce per essere soprattutto teorico, ma che nel concentrarsi sugli spunti metacinematografici diventa un film-inchiesta diretto, parossistico, impressionante e scioccante, girato all’interno della guerriglia che si è opposta ad Assad.
Presentato a Venezia75 nell’ambito della 32ma Settimana Internazionale della Critica, Still recording inizia con lo stesso Saeed che cerca di insegnare ai giovani di Ghouta, in Siria, le regole del cinema e come usarle per documentare la loro battaglia, per informare il mondo delle loro lotte e delle ingiustizie subite. La prima immagine che ci viene mostrata è di un film hollywoodiano su un licantropo, evidentissimo riferimento ad Assad, e anche se il budget del cinema è diverso le regole sono sempre le stesse: primi piani, dettagli, movimenti, tutto può essere “usato”, quando necessario per raggiungere lo scopo. Ovviamente, però, la realtà che i protagonisti si troveranno ad affrontare sarà troppo dura per poter seguire alcuna regola.
È un interessante punto di partenza, quello di Still recording, che lo differenzia dai molti film sulla guerra in Siria, e ce ne sono ormai tantissimi dal fondamentale Eau argentee, Syrie autoportrait di Ossama Mohammed e Wiam Simav Bedirxan ai molti altri che vengono prodotti e giustamente distribuiti. Un punto che è al contempo concettuale e pragmatico, e che si svilupperà in una riflessione sul filmare realmente innovativa in cui il cinema e la macchina da presa sono strumenti di documentazione ma anche di propaganda, consapevole e a volte inconsapevole.
I registi seguono le truppe di una milizia proprio al fronte, i “soldati” sono tutti giovani ed è un clima quasi di amicizia. Tengono in mano la videocamera per filmare tutto ciò che li circonda: rovine, macerie, corpi sparsi sui cigli delle strade, esplosioni improvvise e fragori assordanti. Le riprese non sono precise e a regola d’arte, ma sono a mano, sgranate, interrotte da un colpo di artiglieria o da una corsa improvvisa. La cinepresa, come i due registi arriveranno a concettualizzare verso la fine, è un’arma, ma nel frattempo non riescono sempre a utilizzarla al meglio e costantemente si interrogano su quali possano essere i suoi migliori usi possibili. fino a usare, in un paio di scene, lo zoom della camera come vero e proprio mezzo di guerra, fondamentale per scrutare le linee nemiche e capire dove posizionarsi.
Li vediamo montare i video e condividerli sui social, e col passare del tempo arriveranno a filmarsi per cercare di raccontare quello che è la guerra, quasi un videogioco d’orrore e morte. In molti momenti, invece, è l’intervistato che intervista chi riprende, in un ribaltamento dei ruoli estremamente acuto, teso a universalizzare il cinema come narrazione e documentazione di un’urgenza. Del resto all’inizio i due registi non vogliono riprendere le manifestazioni perché non vogliono morire e scappano ai primi colpi, ma col tempo e il fragoroso detonare degli eventi bellici e (dis)umani il loro atteggiamento non potrà che cambiare.
La guerriglia si sposta tra Douma, Damasco e Ghouta e le riprese con loro, con il documentario frutto di un lavoro che va dal 2011 al 2015 per un totale di quasi 500 ore di materiale dove non c’è solo la guerra ma anche le sue pause, mentre i ragazzi/miliziani bevono e fumano, e alla ricerca di un minimo di ristoro si buttano in piscina. Ma questo lo vediamo solo all’inizio, quando la spirale della guerra non ha ancora finito di stringere il suo cappio intorno a chi la vive nel quotidiano. Verso la fine, invece, i protagonisti trovano un magazzino di liquori (almeno una ventina di casse) e lo devono distruggere, ovviamente in favore di camera. Subito dopo la distruzione di tutte le bottiglie addirittura con una raffica di mitra, però, si confessano ridendo che non avrebbero voluto farlo, ma che la distruzione si era fatta assolutamente necessaria per la telecamera. La propaganda e la manipolazione diventano così fondamentali nel discorso: uno dei miliziani passa molto del suo tempo parlando via radio con un amico sul fronte opposto, e mentre si percepisce la loro amicizia sono allo stesso modo evidenti le differenze di opinione, perché il concetto di verità è labile e sempre costruibile. I due si rinfacciano le alleanze e non credono l’uno all’altro, mentre la propaganda di parole e immagini fa dubitare di tutto e tutti.
Col tempo emergeranno le differenze di vedute e anche qualche lotta interna, ma a Ghouta, dove un accordo con il regime permette la presenza di donne e bambini, i due filmano il tentativo di riprendere la vita e cercano di mettere a posto una casa arredandola con cura, mentre come a dare un’illusione di normalità i bambini ancora dipingono i cancelli e vengono organizzate mostre di fotografia, altre immagini nelle immagini, altri schermi negli schermi. Del resto Still Recording, “registrare ancora”, è profondamente significativo già dal titolo, che indica di non fermarsi, di continuare a documentare, di non smettere mai di filmare. Quando verso la fine un uomo chiede al regista «Perché stai filmando?», lui risponde che lo fa «per la memoria», ma poi aggiunge subito «non per la riconciliazione». Come a dire che oggi più che mai è assolutamente bruciante e necessario filmare e mostrare questa realtà cruda e micidiale, analizzarla attraverso il cinema, portarla fuori dai confini a tutto il mondo. Per una questione etica, per un bisogno politico e sociale profondamente umano, per la necessità intima di esprimersi e di dare una forma al proprio orrore. Ed è così che, quasi a sorpresa, viene fuori uno dei film più importanti di questa Mostra. Un qualcosa che rimarrà come le ferite più dure a curarsi, come fondamentale documento storico, come trattato sul cinema e sulla sua visione.
Claudio Casazza