L’espressione idiomatica Still Life viene tradotta in italiano, nel linguaggio artistico e nella fotografia (dove invero rimane spesso declinata all’inglese), con la locuzione natura morta. E una natura morta è infatti l’affresco ideato e dipinto da Uberto Pasolini (regista, soggettista e sceneggiatore della pellicola) sulla vita del malinconico, insipido, anonimo e apparentemente infelice funzionario comunale John May, che nel desolante distretto di Kennington, sobborgo della Greater London, si occupa del funerale delle persone morte in totale solitudine: si reca nei loro appartamenti una volta che ne è stata scoperta la morte (non di rado a settimane di distanza dal trapasso, quando ormai i corpi in putrefazione hanno costretto i vicini ad occuparsi – giocoforza – di coloro dei quali prima non si erano mai minimamente interessati); raccoglie gli oggetti più significativi appartenuti ai defunti e ordina la distruzione di tutto il resto; cerca eventuali segni di parenti o amici, ancorché lontani o dimenticati; redige un discorso funebre basandosi sulle risultanze della sua ispezione domiciliare; assiste, infine, al funerale e alla sepoltura, con rituali che tengono conto della fede professata da ciascuno e delle eventuali ultime volontà, disponendo una colonna sonora appropriata. L’idea è dirompente nella sua semplicità, da perfetto cinema d’auteur: «Quando si muore si muore soli» cantava Fabrizio De André, e Pasolini costruisce un intero film sopra questo concetto mai così tangibile come in questa pellicola di produzione anglo-italiana.
Il minimalismo la fa da padrone, non soltanto nelle azioni ma anche e soprattutto nella caratterizzazione di un protagonista il cui stile di vita si concilia alla perfezione con le vicende narrate. John May è un burocrate diligente e meticoloso che conduce, tutto sommato, la stessa vita di coloro dei quali si occupa post-mortem: una vita solitaria, fatta di rituali ossessivi (il pasto a base di scatolette e pane tostato, la scrupolosità nell’attraversare le strisce pedonali). Ogni tanto si spinge oltre le sue abitudini (una cioccolata al posto del solito tè nero) ma lo fa con estrema riluttanza, con una ritrosia cui si abbandona soltanto per la sua totale mancanza di assertività, per la sua irresolutezza, la sua incapacità di dire di no (emblematica, in tal senso, la sequenza del fast food). John May è solo, forse anche più solo di quei defunti di cui si ostina a tentare di rintracciare amici o parenti, finendo generalmente per gettare la spugna e partecipare in solitudine all’ennesimo funerale, accompagnato soltanto dal sacerdote e dai becchini di turno. Bellissima e commovente la scena in cui John costruisce uno struggente discorso funebre di una anziana donna mai vista prima, partendo dai pochi oggetti ritrovati nel suo appartamento e ipotizzati come centrali nella sua vita.
John vive il suo impiego con assoluta devozione, fino a quando la crisi economica arriva a colpire il suo posto di lavoro, sacrificato sull’altare dell’efficienza amministrativa. Ma prima di andarsene John vuole portare a termine il suo ultimo “dossier”, particolarmente significativo per lui perché riguarda un uomo che viveva di fronte al suo appartamento, ma di cui non si era mai nemmeno accorto. L’anonimato della metropoli ha mietuto la sua ennesima vittima e in questa occasione John si sente inconsciamente colpevole. Billy Stoke era di fatto un alcolizzato, ma scandagliando la sua vita – ancora una volta partendo dagli oggetti trovati nella sua ultima abitazione – si compone il mosaico di un’esistenza estremamente più complessa di quanto potesse apparire di primo impatto, e sicuramente più articolata di quella basata sui giudizi semplicistici tratti dalle apparenze: una figlia abbandonata, un amore terminato, il servizio militare compiuto nei parà alle Falkland, gli ultimi anni trascorsi insieme ai clochard. Questa sua ultima indagine sembra riportare John alla vita, cancellando il grigiore dei suoi ultimi anni: convincendo la figlia di Stoke a partecipare al funerale del padre, otterrà da lei un appuntamento. Ma il destino beffardo si scaglierà contro di lui, in un finale amarissimo, proprio (e paradossalmente) quando il superamento dei suoi rituali così ossessivi lo porta ad abbassare la guardia. E John si riscoprirà solo nella morte, per aver donato se stesso a quelle donne e a quegli uomini dimenticati che adesso lo ripagano con la gratitudine eterna.
Vita e morte si rincorrono e costantemente si dissolvono l’una nell’altra, mentre la delicatezza del soggetto e la levità della regia di Pasolini accompagnano lo spettatore dal primo all’ultimo minuto di quest’opera lieve e toccante, per poi deflagrare in un finale forse non del tutto originale ma decisamente efficace. Come efficaci sono le musiche di una straordinaria compositrice come Rachel Portman, che accompagnano con discrezione le immagini per tutta la pellicola. Immagini catturate da una fotografia cenerina, (banalmente) funerea e che solo nel finale si ravviva, ampliando la gamma cromatica coerentemente con lo sviluppo narrativo. Si diceva del minimalismo: una tendenza onnipresente nel cinema contemporaneo d’autore europeo e che ha le sue radici in un regista come Bresson, forse il primo dei modernisti europei. Uberto Pasolini (che non è imparentato con Pier Paolo, ma vanta comunque consanguinei celebri, essendo pronipote di Luchino Visconti) maneggia le sue idee con perizia e sensibilità. E considerato il suo passato (è stato il produttore di Full Monty) non può non emergere il notevole eclettismo di un autore che, giunto al suo secondo lungometraggio, si era prima dedicato soprattutto all’attività di producer. Presentato nella sezione Orizzonti al Festival del cinema di Venezia del 2013 – dove si è aggiudicato il riconoscimento per la miglior regia della sezione, oltre a tre premi collaterali (Premio Pasinetti al miglior film, Premio CIVITAS VITAE, Premio CICAE – Cinema d’Arte e d’Essai) – Still Life ha fatto breccia nella critica e nel panorama festivaliero internazionale. Buona parte del merito, occorre rimarcarlo, va all’eccellente interpretazione di Eddie Marsan, che dopo una vita da caratterista e comprimario si ritaglia un ruolo da protagonista nella parte di quest’uomo qualunque, solitario e pedante, una sorta di Mr. Bean a cui è stata tolta qualsiasi parvenza di humour. Recitando in sottrazione si porta praticamente da solo il film sulle spalle, iscrivendosi alla nutrita schiera di ottimi e talentuosi attori inspiegabilmente condannati – quasi come una natura morta in mezzo a dipinti più quotati – a passare quasi tutta la carriera in seconda fila. Un po’ quello che è accaduto, anche di recente, al compianto Harry Dean Stanton. Ma questa, per quanto sia sempre la solitudine il suo principale tema, è davvero un’altra storia.
Vincenzo Chieppa