STAR WARS ep. VIII – GLI ULTIMI JEDI (2017), di Rian Johnson

40 anni fa, gli schermi argentei di tutto il mondo si illuminavano con un punto chiave del cinema americano, ovvero con Guerre Stellari di George Lucas, capostipite di una saga tra le più avvincenti, discusse, studiate, seguite e amate di tutto il cine-universo che collima col mondo nerd. Come ci pare sempre giusto ricordare, la prima guerra stellare aveva una struttura narrativa liberamente ispirata a La fortezza nascosta di Akira Kurosawa, e in quanto tale, oltre al valore di aver collaborato all’inizio di un’epoca di blockbuster che negli anni ’80 avrebbe completamente eclissato gli sforzi della New Hollywood portando a svariati risultati commerciali disastrosi anche per i registi che negli anni ’70 andavano più in voga (uno su tutti: Coppola nel 1982 con il sottovalutatissimo Un sogno lungo un giorno, che mandò in bancarotta la Zoetrope), aveva anche la grande potenza di una ritrasposizione vicina al postmodernismo di un qualcosa dall’estetica tradizionale. I due capitoli successivi della saga non hanno fatto altro che rinforzarne l’epica, coinvolgendo un pubblico sempre più grande e fondando quella che effettivamente è una delle prime “fanbase” legate ai franchise hollywoodiani. L’arrivo del nuovo millennio ha portato con sé la necessità di una seconda trilogia, composta da famigerati prequel che sono serviti al mondo del cinema principalmente come sperimentazione sugli effetti speciali digitali, nonostante uno scarso successo di critica che ci pare principalmente ingiusto. Circa un decennio dopo, con l’acquisto della Lucasfilm da parte della Disney, il franchise sentiva la necessità di una resurrezione, e ciò ha portato al film-ponte Il risveglio della forza, che sotto la regia di JJ Abrams ha trovato riscontri tanto positivi quanto negativi: la ripresa degli stilemi di regia di Lucas ha provato a eclissare dei sin troppo evidenti buchi di script e di logica narrativa, che hanno privato di valore artistico l’opera ricalcando troppo esplicitamente proprio la struttura del primo film ma eliminando in buona parte ciò che invece riportava a Kurosawa. Dall’altra parte, una trilogia parallela di spin-off, esclusivamente commerciale, ha insospettabilmente partorito Rogue One, uno dei film più belli e complessi di tutta la saga, un vero e proprio film di guerra quasi prosciugato dall’umorismo per lasciare spazio a un’idea di atto di resistenza che ha anche un aspetto pieno di amore, passione, sacrificio, speranza, con uno dei finali più dolci e potenti che la recente fantascienza può regalare. Inoltre, c’era un ritorno all’idea del collegamento col mondo del cinema d’azione orientale, con coreografie spericolate e scene d’azione avvincenti.

Gli ultimi Jedi arriva dopo una tragedia: la morte di Carrie Fisher, storica principessa Leila, che aveva già girato tutte le proprie scene per il secondo film della terza trilogia. Anzi, una delle ultimissime inquadrature del film la ritrae, viva e vegeta, ma i titoli di coda presentano l’inevitabile e commovente scritta «in memoria della nostra principessa Carrie Fisher». Dopo aver riportato in vita la Leila più giovane negli ultimissimi istanti di Rogue One con un guizzo di poesia computerizzata che sembrava impossibile, Leila tuttavia non muore, anzi, in un modo o nell’altro, sembra destinata a vivere per sempre nelle ombre di un passato di una galassia lontana lontana; senza dimenticare, peraltro, che la Disney ha dichiarato di non voler continuare la narrazione computerizzando Carrie Fisher nel terzo, per ora innominato, capitolo della trilogia. Con la regia e la sceneggiatura di Rian Johnson, precedentemente regista di Looper e di tre tra i più clamorosi episodi di Breaking Bad (su tutti: Ozymandias, forse il climax narrativo assoluto dell’intera serie di Vince Gilligan), Gli ultimi Jedi prosegue su alcuni dei binari lasciati da Il risveglio della forza, ma ha tutt’un altro tipo di, perdonatemi la battuta, forza. Innanzitutto viene completamente abbandonata la prospettiva nostalgica, l’idea della messinscena del ritorno, per dedicarsi semmai a un lavoro sul simbolo, che usa le citazioni al passato con garbo ed eleganza, mettendo in scena il decadimento e la scomparsa dei capisaldi estetici e dogmatici della vecchia trilogia, mandando a quel paese la struttura de L’impero colpisce ancora conferendo umanità e ambiguità agli antagonisti o eliminandoli brutalmente. Dopo Han Solo, un altro simbolo è destinato a morire, in una sequenza struggente, appartenente a un colossale montaggio alternato, che cita nel contempo Guerre Stellari del 1977 e A touch of Zen di King Hu. Già solo questo basterebbe a portare Gli ultimi Jedi su un livello più alto rispetto al capitolo precedente, ma Rian Johnson ha anche l’intuizione commerciale funzionale di proseguire sulla scia di Edwards in Rogue One proseguendo la linea del film di guerra che si rifà al passato semantico delle origini (il discorso di Luke sulla Forza, che si può collegare alla distinzione tra Atman e Brahman nelle Upanishad; le scene d’azione coreografate con riferimenti allo stile di combattimento orientale; Rey eroina femminista che comunica con il Male attraverso un campo-controcampo che distrugge le barriere dello spazio). Ogni sequenza può essere una scena madre, dal sacrificio iniziale girato e montato come una folle osmosi tra una macrosequenza di primi piani à la Eisenstein e un film di Michael Bay fino all’inseguimento con morale ecologista, dalla scena del casinò che cita il cinema classico fino al commovente incontro tra Luke e Leila, con Kylo Ren e Rey che fungono come principale bussola per trovare le coordinate in un mondo così problematicamente scisso in Bene e Male. Per la prima volta in tutta la filosofia di Lucas, non ci sono più certezze o poli opposti, la tradizione viene distrutta e infuocata (con la benedizione di Yoda) e un messaggio pacifista interrompe il flusso sacrificale di Rogue One: «bisogna salvare chi amiamo, non combattere chi odiamo».

Certo, Star Wars è e rimane un calderone discutibile di giocattoloni. Molte grandi idee narrative vengono lentamente oscurate da ricerche epiche che invece vengono vinte dal kitsch (una su tutte la già famigerata sequenza della principessa Leila che vola nello spazio), altre invece sono occupate da un umorismo forzato non dissimile da quello dei cinefumettoni della Marvel, anche se giocato meglio. È un’enorme epopea western sulla natura che vince sull’individualismo, dalle grandi ambizioni e dalla grande forza grafica e narrativa, ma ha il grande difetto di dover crescere, anzi, rinascere in un contesto e in un ambiente che sacrificano la verve visiva, spesso sostituendola con quello che deve essere piuttosto che con quello che può essere o, addirittura, con quello che è, idealisticamente, Star Wars. Ci pare impossibile attaccare Gli ultimi Jedi, che rimane un prodotto profondamente commerciale e commercializzabile, colmo di difetti legati a questa cosa, ma con una grande potenza nell’auto-descriversi attraverso i grandi momenti di violenza e spiritualità. Insomma, è un film che funziona, come Rogue One ma in maniera più discontinua, quando si rapporta con il passato, con «colpi bassi» che funzionano meglio che nel capitolo precedente di Abrams, sia riportandola alla memoria riscavando nel significante sia distruggendola narrativamente all’interno del significato. Il fulcro alla fine è Luke, che qui come mai prima è davvero un eroe senza tempo, quasi senza senso, alla ricerca di una ricerca, fuori dagli schemi di un sistema narrativo che lo cannibalizzerebbe.

Nicola Settis