STAR WARS ep.VII – IL RISVEGLIO DELLA FORZA (2015), di J.J. Abrams
Ad un mese dall’uscita, ed eliminato dunque il rischio di offendere chicchessia con quella fastidiosissima parolaccia che è il concetto di “spoiler”, ritenevamo giusto spendere qualche parola su quello che, nel bene e nel male, è stato l’evento cinematografico del 2015. E non parliamo solo del film in sé, ma anche di quella tendenza di cui, per quanto riguarda l’anno da poco concluso, è stato il culmine: il sequel che in realtà è, in parte, anche reboot/remake, in quanto intriso di elementi riconoscibili del suo franchise di appartenenza, a livello narrativo, visivo e sonoro. Nel 2015, infatti, abbiamo avuto ben quattro esponenti, tutti di un certo peso, di questo “nuovo” modo di fare cinema (popolare): in ordine cronologico, trattasi di Jurassic World di Colin Trevorrow, Come ti rovino le vacanze di Jonathan Goldstein e John Francis Daley, Creed – Nato per combattere di Ryan Coogler (da pochissimi giorni uscito nelle nostre sale) e, ovviamente, Star Wars: il risveglio della forza di J.J. Abrams. Tutti accolti bene sia dalla critica sia dal pubblico, ad eccezione del secondo (dove lo spirito originale, farina del sacco di John Hughes, è annegato in un mare di cinismo e battutacce gratuite, pronunciate da personaggi insopportabili), ma con qualche riserva da parte dei fan di vecchia data per quanto concerne la sensazione di déjà vu. Sensazione che nel caso di Star Wars è inevitabile a prescindere, dato che, per questioni di continuità mitopoietica, ogni episodio ufficiale si apre con la didascalia “Tanto tempo fa in una galassia lontana lontana” e con un incipit scritto, accompagnato dalle note immortali di John Williams (il quale continua, alla tenera età di 83 anni, a trasportarci in mondi incantevoli e stupefacenti con la stessa grazia e maestria di quando lo faceva nel 1977).
Proprio quel “Tanto tempo fa” esemplifica la futilità delle lamentele del fandom, ingiustificato nel suo aspettarsi qualcosa di “nuovo” o “diverso”. Perché Star Wars è una fiaba, un impianto narrativo le cui componenti essenziali hanno attraversato, intatte, secoli di racconti epici, dal ciclo arturiano alla fantascienza pulp di Edgar Rice Burroughs, fino ad arrivare a quella serialità fumettistica, cinematografica e televisiva che tanto affascinò il giovane George Lucas quando concepì la sua saga stellare (nata anche dall’impossibilità di ottenere i diritti di sfruttamento del fumetto Flash Gordon, arrivato poi al cinema nel 1980 ed ora in attesa dell’inevitabile reboot). Da qui il concetto stesso degli episodi che compongono la saga cinematografica (e la decisione di iniziare – retroattivamente – in medias res con l’Episodio IV), ma anche la narrazione frammentaria di The Clone Wars e Rebels, le due serie animate che espandono l’universo lucasiano sul piccolo schermo, o i vari film “antologici” che, da quest’anno, si alterneranno alla storia principale (e tutto questo senza contare vari romanzi/fumetti usciti nel corso degli anni, e per la maggior parte esclusi dalla continuità ufficiale da quando Lucasfilm appartiene alla Disney). Che si parli di supereroi, Transformers o cavalieri Jedi (e in fin dei conti sono un po’ tutti la stessa cosa), la struttura predefinita, la formula, è una tradizione antica quanto la letteratura stessa, e oggi trova il suo mezzo espressivo prediletto nel cinema detto – spesso con toni dispregiativi – popolare, fracassone, per il consumo di massa. D’altronde, se la Disney ha speso la bellezza di 4 miliardi di dollari per l’acquisto dell’impero – termine che non usiamo a caso – creato da Lucas (che include anche la saga di Indiana Jones), era irragionevole aspettarsi che il ritorno di Star Wars venisse affidato a Terrence Malick, Lars von Trier o Paolo Sorrentino. Qui siamo in territorio blockbuster, ragion per cui la presenza di J.J. Abrams in cabina di regia era forse l’unica scelta sensata.
Ad Abrams dobbiamo non solo la resurrezione cinematografica di Star Trek, il terzo Mission: Impossible o l’omaggio a Spielberg che è Super 8, ma anche e soprattutto Alias, serie televisiva a suo modo rivoluzionaria dove era già possibile scorgere il DNA, passato e futuro, di Star Wars, in particolare per quanto riguarda la centralità della figura femminile, le famiglie in crisi e il gusto del colpo di scena (la prima stagione finì con un cliffhanger che fa tanto “Io sono tuo padre”). Insieme a Lawrence Kasdan, sceneggiatore storico della saga, il creatore di Felicity Porter e Sydney Bristow ha ridato nuova vita a quella galassia lontana, abbracciandone i pregi e, in un certo senso, prendendo di mira i suoi difetti: in fondo, che cos’è Kylo Ren (villain formidabile nonostante le polemiche e il discutibile doppiaggio italiano) se non una rappresentazione estrema di chi venera alla follia il mondo di Star Wars, sognando di emulare i propri beniamini (nel caso di Kylo, il nonno materno Darth Vader)? E la scelta di un terzetto di nuovi protagonisti “atipici” per questo macrocosmo non è forse, oltre ad un casting tipicamente abramsiano, una velata critica a chi rigetta in toto le novità all’interno di uno schema seriale (Daisy Ridley incarna la donna forte ed emancipata, mentre John Boyega e Oscar Isaac sono di origine rispettivamente africana ed ispanica, lontani anni luce dall’iconografia che Kevin Smith chiamò scherzosamente “ariana” riferendosi a Mark Hamill nei panni di Luke Skywalker)?
Ed ora passiamo allo spoiler vero e proprio, il motivo per il quale questa recensione esce solo adesso, potendo toccare i punti di interesse senza ledere la commerciabilità del film, da ieri maggiore incasso USA di sempre. Il risveglio della forza è un vecchio amico, ma non per questo perfettamente riconoscibile. Se da un lato la morte di Han Solo mantiene viva la tradizione di “uccidere” l’attore più famoso nell’episodio inaugurale di ciascuna trilogia (nel 1977 toccò ad Alec Guinness, nel 1999 a Liam Neeson, e nel 2015 c’è persino l’uscita di scena “bonus” assegnata a Max von Sydow), dall’altro la sua presenza annunciata nell’Episodio VIII apre la saga a nuove possibilità narrative (qualora si trattasse di flashback, finora più o meno inesistenti nel mondo di Star Wars); e in quel finale dolorosamente aperto, dove riecheggia in tutto il suo splendore il tema musicale associato alla Forza, vi sono anche frammenti della Marcia Imperiale, che quindi mettono in dubbio, anche solo per un istante, la posizione di Luke nel conflitto che verrà (e giocano anche sulla persona di Mark Hamill, che negli ultimi vent’anni ha privilegiato ruoli da cattivo). Il ritorno di Star Wars è come quello di Jurassic Park, che guarda caso ha goduto di un successo quasi identico al botteghino: era necessario tornare alle origini per riconquistare la fiducia del fandom, deluso dalle ultime incursioni cinematografiche di entrambe le saghe, per poi aprire diverse piste verso il nuovo, l’inedito (nei limiti delle convenzioni del genere e della narrativa seriale, si intende). Saranno gli altri episodi della trilogia a permettere un giudizio definitivo, del resto Il risveglio della forza nient’altro è che un nuovo incipit, cui faranno seguito altri due film in ogni caso da attendere. Senza dubbio, per ora, Abrams ha portato sullo schermo un universo familiare ma al contempo mutato, un prodotto senza tempo che è anche, paradossalmente, costruito su misura per il pubblico cinematografico di oggi. Grazie a lui, Star Wars è di nuovo un’avventura magica ed emozionante, la cui anima fiabesca aveva rischiato di scomparire nell’opportunismo digitale della seconda trilogia, parto creativo di un regista divenuto sempre più uomo d’affari. Grazie ad Abrams, possiamo tornare a sognare, nel buio della sala, quando quelle due parole appaiono a caratteri cubitali sullo schermo. E questo, in un mercato dove un certo cinismo affarista la farà sempre da padrone, è un risultato non certo da poco.
Max Borg