STAND BY FOR TAPE BACK-UP (2015), di Ross Sutherland
“Da qualche parte oltre l’arcobaleno
lassù in alto
c’è un posto di cui, una volta
ho sentito parlare in una ninnananna.
Da qualche parte oltre l’arcobaleno
il cielo è azzurro
e i sogni impossibili
diventano realtà”
Il mago di Oz, 1939
Nell’eterna serie di opere che si interrogano quasi definitivamente sul ruolo attuale dell’immagine, altre cercano di sviare il discorso, perché cercano intimamente altro, o almeno hanno il bisogno primario ed urgente di cercare se stesse e prima ancora il loro autore. Ross Sutherland lavorava in banca, come un comune frustrato impiegato qualsiasi. Probabilmente non era nemmeno troppo legato al cinema, alla musica, ed all’espressione artistico-creativa stessa. Un classico uomo qualunque, che però ha un segreto; apparentemente di pochissima rilevanza, in realtà salvifico. Quando muore il nonno, Ross è in crisi assoluta, con nessuna via d’uscita, inizia a scrivere e a girare. Con sé ha solo una VHS, l’aveva registrata con il nonno, piena si immagini casuali, prove di registrazioni, e così via.
Questo film in fondo è solamente un viaggio, la coscienza di quella videocassetta che va costantemente avanti ed indietro, rallentata ed accelerata. Ross ci accompagna con le sue parole, le sue riflessioni e il continuo camminare sul baratro della follia per una lotta continua della sopravvivenza (n/dell’anima). La vhs ha un enorme significato sentimentale, il vettore principale di mantenere un legame postumo. Tra la cura verso la depressione e la via di meditazione quello stesso nastro che ha insegnato a Ross prima a sopravvivere e poi a ripensare la sua stessa vita, al suo lavoro, alle sue conoscenze ed al suo ruolo nel mondo.
Un vortice continuo, in cui solo lo stesso Ross può trovare un senso. Anche se stiamo guardando l’apertura di Oz, la sequenza dei titoli di Willy, il principe di Bel Air, un po’ di Ghostbusters (la prima impressione che dà, retinica e mentale, tra il terrore e la fascinazione), Newcastle-Arsenal e un episodio di The Crystal Maze, i frammenti assumono una qualità ipnotica attraverso la ripetizione e l’inquietante colonna sonora sovrapposta. Il dialogo di Ross perfettamente corrisponde a ciò che viene visualizzato sul nastro, mentre pare giocare con il suo stesso nodo alla gola parlando della morte, della sua infanzia, delle sue relazioni. Un flusso di (in)coscienza che vibra continuamente tra la poesia ed il delirio, donando continuamente sprazzi d’amore ed emozioni.
Ross ha un senso autoironico di umorismo, un fascino malizioso e un’onestà frontale nel trasformare questo in un’ora di divertente, crudo, toccante respiro. E poi le immagini, che assumono il senso archeologico di uno scrigno di senso perduto (del Novecento), in una selva di segni e simboli, forse impossibili, ma che lo stesso Ross prova continuamente a decifrare per donargli una vita, la propria. La terzietà di quei fotogrammi in video si fa sempre più slabbrata, fino a creare una traccia che converge e diverge continuamente con le parole. Poi arriva Lo Squalo, l’impossibilità del cinema nella possibilità della vita; la mascella meccanica a cui Spielberg si affida non funziona. E quindi? Lo squalo non ci sarà, l’immagine salva il film, come un’immagine su un nastro salva una vita. Nulla fa più paura di quello che si può solo percepire, e in fondo nulla dona così tante emozioni. La memoria è vita, e lo sarà per sempre.
Erik Negro