STALKER (1979), di Andrej Tarkovskij

I lungometraggi di Tarkovskij sono abbastanza facilmente strutturabili attraverso tre fasi/periodizzazioni ben distinguibili per temi e decisioni estetiche e di genere. I primi due film negli anni ’60, L’infanzia di Ivan Andrej Rublëv, hanno un diverso tipo di ambizione e di discorso di fondo, ma sono entrambi film storici esistenziali che visivamente si basano sulla potenza del bianco e nero – e nel finale del secondo dei due, il passaggio al colore rappresenta una delle scelte stilistiche più drammaticamente significative e allegoricamente interessanti della sua filmografia. Gli ultimi due film degli anni ’80 invece sono nettamente i suoi film più disorganici (non necessariamente in un’accezione negativa), multitematici nella loro espansione disperata, con una ricerca di un senso che in Nostalghia sembra sfiorata e in Sacrificio raggiunta ma parzialmente. Resta il momento centrale, gli anni ’70 con i primi effettivi lavori a colori. Se escludiamo il film centrale, Lo specchio, che nella sua breve durata è forse il più emblematico lavoro poetico di Tarkovskij, gli anni ’70 per il regista coincidono con la fantascienza. Solaris nasce da un romanzo iconico di Stanisław Lem, mentre Stalker è una dilatazione visuale di un romanzo dei fratelli Strugackij, Picnic sul ciglio della strada. I fratelli scrittori, menti geniali che hanno firmato anche il capolavoro È difficile essere un Dio, hanno anche curato la sceneggiatura del film di Tarkovskij insieme al regista, modificandone setting e svolgimento. È forse il suo film più popolare, e anche quello di cui andava più fiero assieme a Lo specchio. Una cosa di cui siamo certi è che è il frammento della sua filmografia ad aver più lasciato un segno memorabile nell’iconografia del cinema, e anche che per certi costituisce il vero punto di svolta della sua filmografia, il passaggio alla rassegnazione misticheggiante del dittico esterofilo successivo (e conclusivo). Le prime figure affrontate da Tarkovskij erano in qualche modo simboli cristologici, sia Ivan con la sua innocenza traviata dalla guerra sia Andrej con la sua Fede intramontabile; Solaris tuttavia spostava la riflessione dall’uomo che soffre per gli altri ma all’uomo che soffre dentro se stesso, riflettendolo nell’empirica percezione dei fantasmi degli altri (una moglie prima, un padre poi). Questa sofferenza coincide però con un dolore più ampio, con un silenzioso urlo poetico verso l’universo che va oltre i concetti di conscio e inconscio, oltre la rivoluzione della psicanalisi verso un’osmosi tra ciò che è terreno e ciò che è altro che è unicamente sbalorditiva. Lo specchio è un ‘unicum’ complessissimo: se c’è un protagonista maschile potrebbe benissimo essere sia Tarkovskij, che è sempre fuori campo tranne nelle scene oniriche infantili, sia suo padre, voce narrante che appare brevemente, sia suo figlio, nel flusso cosciente di immagini che costituiscono il film. Il dolore dell’uomo diventa più femminile, inscatolato nel corpo di una donna/madre/moglie dallo sguardo dolente, una Teresa d’Avila sovietica senza tempo. Stalker riporta il discorso sul corpo martire dell’uomo e della religione all’interno di esso, già anticipando le ossessioni dello sguardo più grigio e stratificato dei film successivi ma partendo apparentemente non dalla costruzione del percorso di un singolo personaggio ma di tre diverse sfaccettature del pensiero umano distinte in tre uomini/sguardi diversi, cominciando la storia con l’illusione di una tripartizione sacra che è presto smentita.

Il protagonista effettivo in realtà è chiaramente uno, già dal titolo, lo Stalker. È successo un qualcosa di poco precisato, forse la caduta di un meteorite o forse la visita di forze extraterrestri, e una distesa rurale mezza distrutta diventa la Zona, un parco giochi per l’eremitaggio spirituale, ennesimo luogo legato alle necessità dell’inconscio. L’intero territorio è delimitato da una barriera protetta da militari e pochi possono entrarvi; si chiamano “Stalker” i folli santoni devoti alla Zona, che a pagamento rischiano la vita per accompagnare altre persone al suo interno, verso una specifica stanza dove i desideri possono essere esauditi. La Zona è un luogo in costante mutamento, e per andare da un punto A a un punto B spesso bisogna percorrere una strada più lunga perché sennò è facile perdersi e confondersi. È un ciclo infinito di crisi mistiche e perdizione spirituale. Lo Stalker abbandona la famiglia, una moglie spaventata e una figlia che si dice sia deforme, per unirsi a un viaggio verso la Zona con due altri uomini, che si fanno chiamare il Professore e lo Scrittore. Il problema è che di questa storia minimale è stato già detto tutto. Che è uno dei più grandi film di fantascienza di sempre, ad esempio, o che è il più metafisico e complesso tra i film russi, un vero e proprio simbolo della contaminazione della cultura sovietica (per qualche ragione) persino in film pop come Atomica bionda. Ma quale significato e quale importanza può avere questo film nell’oggi? È ancora costantemente preso in considerazione per restauri e rivisitazioni, è stato preso come punto di riferimento per dipinti e videogiochi, è recuperato persino nella sigla di Venezia 70. La cosa che impressiona di Stalker è probabilmente la struttura asciutta della non-storia, aumentata d’intensità dalla brulla scenografia nel non-luogo della Zona e dalla ricchezza generale delle riprese da un punto visuale, per posizionamento delle luci e composizione dell’immagine. Con un prologo e un epilogo nel “mondo reale” fotografati in seppia e una parte centrale più astratta in cui il paesaggio bucolico e realistico in rovina sembra immobile come i mondi dei dipinti di Friedrich, il quinto lungometraggio di Tarkovskij non è più uno specchio in una lettura poetica della narrazione, bensì tramuta in poesia il mondo alla base. I simbolismi e i riferimenti ampissimi del testo degli Strugackij si spostano e si traslano in una favola molto più essenziale. Non c’è più, come nel romanzo, la sfera d’oro, Hiranyagarbha dell’inconscio, che è sostituita da un discorso molto più diretto e potente, basato su una dialettica che gira a vuoto trovando il tutto nel nulla, come nei migliori lavori teatrali di Beckett. La stanza del desiderio capisce le necessità più profonde dell’uomo, e finisce pure per portarlo al suicidio appena si rende conto di mettere i propri desideri avari ed egocentrici sopra alla giustizia umana e al riparo dei sentimenti perduti. In Scolpire il tempo Tarkovskij dice «La Zona è la Zona, la Zona è la vita: attraversandola l’uomo o si spezza o resiste. Se l’uomo resisterà dipende dal suo sentimento della propria dignità, dalla sua capacità di distinguere il fondamentale dal passeggero»; non bisogna interpretare lo spazio interiore, perché entrando nel film lo si vive. Quindi non ha senso forse continuare a interpretare i segni lasciati nel dialogo filosofico tra Fede, Scienza e Letteratura (o meglio, il raziocinio disperato del mondo culturale medio), e la maniera migliore per continuare ad amare Stalker, tornato in tutto il suo splendore sullo schermo gigante del Rossetti di Trieste per il Science+Fiction Festival 2018, sta più semplicemente nel seguirne le parole.

Lo spettatore in cosa crede? In cosa si immedesima? Ogni lotta dell’uomo verso il mondo esteriore può essere riassunta forse unendo e cercando di capire i punti di vista di questi personaggi. Tarkovskij esprime esplicitamente la propria volontà di simpatizzare con lo Stalker, più Giobbe che Cristo, sfidato a perdere il proprio credo nel metafisico di fronte alla fisicità inaccettabile dei desideri dei suoi compagni di viaggio. Lo spazio della stanza non è invaso, ma il campo invalicabile viene occupato dalla macchina da presa, che entra nel luogo miracoloso per filmare gli uomini al di fuori di esso. Desolati, immobili, che a malapena riescono a guardarsi negli occhi. L’acqua entra in campo e dimostra l’inflessibilità del tempo, lo scorrere delle cose che si scolpiscono nel movimento dell’immagine e la staticità della natura che continua a esprimersi con movimenti minimi, che respirano. È banalmente come Tarkovskij vede la realtà e la percepisce: ogni inquadratura è un organismo poetico, con una propria vita e un proprio tempo. La successione e la sequenza di queste vite che si sostituiscono l’un l’altra costituisce il flusso di montaggio che diventa fulcro vero e proprio della narrazione del film, seconda ed effettiva costruzione della storia. È una caratteristica di punta di ogni film, a dire il vero, ma in Stalker si sente più che mai la coesa separazione in compartimenti stagni della costruzione visiva e narrativa. Una costruzione puramente legata alla Fede, quasi all’arte religiosa (cos’è Andrej Rublëv se non un’icona religiosa che si sposta dalla miniatura alla settima arte e da Dio al pittore?); gli interlocutori dello Stalker/Andrej sono invece portavoce della distruzione, un po’ nichilisti, razionalisti o illuministi, pronti a disgregare le pareti del pensiero filosofico per portare avanti cinicamente i propri propositi egocentrici fondati sui fondamenti del pensiero novecentesco invece che sulla spinta del respiro spirituale. Nel ciclo degli eventi proposto, la catastrofe e il miracolo convivono. Forse è per questo motivo che Stalker è ancora rilevante, al di fuori dell’impatto culturale che ha avuto, nel subconscio degli spettatori del post-cinema: per come amalgama la meraviglia del mondo costruito e distrutto dall’uomo con l’orrore implosivo della sua disperazione. Alla fine i desideri non sono compiuti, e solo lo sguardo onnisciente del regista può penetrare nella stanza della loro realizzazione, ma in qualche modo appare l’essenza di una luce, una speranza, un miracolo vero negli occhi silenziosi della figlia dello Stalker. Un movimento paranormale di fantasma. O forse sono i treni. O forse le due cose insieme, che avverano i desideri inconsci dello Stalker (o del regista, della macchina da presa che è entrata nella stanza?) portando l’umanità a uno stadio futuro d’evoluzione, un potere miracoloso che si mischia col progresso tecnologico. Non ci stiamo propriamente arrivando nella realtà, ma è un sentimento che ancora può scorrere nelle vene degli uomini e del cinema. Altri autori del cinema russo hanno fatto grandi commenti sul rapporto tra il singolo individuo e lo spazio in evoluzione nel loro contemporaneo fino a cercare di capire il mistero oltre il postmoderno, e si va da Dovzhenko con Zvenigora a German Jr. con Under electric clouds; Stalker è un ideale punto d’incontro tra la corsa violenta sulla ferrovia ipotizzata nel drammatico finale del primo e le danze confuse tra le immagini digitali del secondo, una previsione di un percorso da un punto A a un punto B ancora impossibile da ipotizzare. Ma, come nella Zona, il sentiero è imprevedibile. E Tarkovskij ci ha abbandonato, ma qualcosa di tutta questa matassa quasi favolistica che ci ha lasciato il regista ci dovrebbe forse portare a ricordarci qualcosa che ci siamo dimenticati. Qualcosa che dovremmo ricominciare a considerare e che forse, per crederci davvero, dobbiamo ancora trovare. Inseguire.

Nicola Settis