SPLIT (2016), di M. Night Shyamalan

Vanno sempre visti più di una volta, i film di M. Night Shyamalan. Vanno sempre ripensati, riletti e ricontestualizzati alla luce dei suoi abituali e spiazzanti colpi di scena finali, che cambiano il bilanciamento degli elementi innervando di senso dettagli prima sottovalutati e relegando a MacGuffin quello che pareva il punto del film, o per lo meno modificano radicalmente i rapporti umani messi in scena. I twist ending scritti e messi in scena dal regista di origine indiana sono quei momenti in cui l’Uomo di Vetro, da saggio e quasi eroico “talent scout” e consigliere, si rivela “il cattivo” di Unbreakable e mette in luce la fallibilità di un supereroe nato dal malvagio e dalla altrui morte, sono quelli in cui la comunità isolata e terrorizzata di The village si svela come il corpo e l’inganno di quello stesso mostro plasmato ancora oggi dalla fantasia popolare, o ancora sono quelli in cui il Malcolm Crowe psichiatra ne Il sesto senso si rende conto di essere già morto, con la disattenzione della moglie nei suoi confronti che non è nient’altro che l’impossibilità per chi è rimasto di vedere l’anima di chi ancora vaga sulla Terra alla ricerca dell’eterna pace. Ma è forse proprio in Split, con quella coda al ristorante rimasta fino all’ultimo talmente segreta da decidere di tagliarla dalle proiezioni test del film per mostrarla solo al momento della distribuzione, che il colpo di scena finale più tipico di Shyamalan viene in un certo senso portato all’estremo, capace di sovvertire e ribaltare un intero immaginario, un intero cosmo narrativo e un intero impianto logico, aprendo a tutt’altre interpretazioni e a tutt’altra storia. La macchina da presa scorre fra i tavoli, mentre la televisione annuncia quel soprannome «ridicolo», “l’Orda”, con cui le ventiquattro personalità “splittate” del dissociato Kevin Wendell Crumb e da poco deflagrate nella Bestia si presentano come una minaccia per la collettività. Qualcuno, sorseggiando il suo caffè, pensa a come questo criminale psicopatico ricordi «quel pazzo in sedia a rotelle» arrestato oltre quindici anni prima, responsabile di almeno tre attentati e del quale non ricorda il nome, fino a quando alle sue spalle si materializza David Dunn/Bruce Willis, che risponderà al quesito dicendo solo due parole: «Mister Glass».
È un’apparizione del tutto a sorpresa, la sua, che va ben al di là degli accordi produttivi che si sono evidentemente resi necessari per “prestare” alla Blomhouse e alla Universal un personaggio Disney, e che significa ben più del mero espediente di lancio su cui innestare Glass, terzo film di quella nel frattempo diventata, dal nome del treno di Unbreakable, la Trilogia dell’“Eastrail 177”. Dichiarare apertamente come Split appartenga allo stesso universo cinematografico di Unbreakable è molto di più. È trasformare tutto un film apparentemente autoconcluso in un secondo prologo – dopo la nascita dell’eroe, ecco quella dell’antieroe, del suo nemico, della sua necessaria nemesi dotata, esattamente come l’eroe, di poteri soprannaturali – ancora una volta volutamente privo di quelle che tradizionalmente sono le altre due parti (sviluppo ed epilogo della trama episodica) di ogni albo di fumetti; è dare una conferma a tutti gli indizi meta-cinefili disseminati nel corso del film, fra il doppio movimento di macchina che anticipa il rapimento così simile a quello che mostrava per la prima volta David Dunn sul treno e la laurea incorniciata dalla dottoressa Fletcher che diventa lo specchio con cui mostrare Kevin esattamente come sedici anni prima era apparso per la prima volta sull’albo Samuel L. Jackson nel ruolo di Elijah Price; ed è il passo metacinematografico definitivo, teorico e necessariamente autoreferenziale, con cui riappropriarsi di un mondo/immaginario, come una sorta di Shyamalan Cinematic Universe, in cui la base di partenza è sempre la realtà medico-scientifica (l’osteogenesi imperfetta di Mr. Glass, il Disturbo Dissociativo dell’Identità dell’Orda), e il punto d’arrivo rasenta sempre la metafisica, l’ignoto, la perfetta e inattaccabile logica del(l’im)possibile. Un mondo di scantinati e di simmetrie, di lunghi tunnel senza finestre e di perfette centralità nel quadro, di lente carrellate laterali e di inquadrature dal basso, del quale Shyamalan sembrava avere smarrito le coordinate muovendosi per qualche anno su territori, fra i ben più deboli L’ultimo dominatore dell’aria e After Earth, evidentemente meno nelle sue corde, e che invece, dopo essersi nel frattempo rinvigorito passando per il basso budget di The visit, aveva evidentemente solo bisogno del tempo necessario per maturare e tornare in un disegno ancora più completo.

Come già anticipato, Shyamalan parte anche in Split dalla realtà, da casi clinici comprovati, da uomini e donne patologicamente affetti dal DID, il Disturbo Dissociativo dell’Identità, che a seconda della personalità in luce sono ciechi e vedenti oppure deboli e culturisti, ogni identità con i suoi diversi test di intelligenza e cerebrali, ogni coscienza all’interno della stessa persona con le sue diverse conoscenze e attitudini, chi conosce una lingua e chi l’altra, chi disegna e chi fuma, fino a chi, unico fra le diverse identità di quello che è apparentemente lo stesso corpo, ha bisogno di insulina. Figli (quasi sempre) dei traumi e del dolore, i dissociati sono più persone diverse, diverse anime e diversi corpi nello stesso corpo, forse “malati”, o forse nuovo gradino ancora incompreso della scala evolutiva. Ed è proprio qui che Shyamalan innesta la sua suggestione, il suo “cattivo” per nulla malvagio, ma sopraffatto, sperduto, (in)conscio, divenuto così potente proprio per proteggersi dalle sue debolezze: e se per caso, laddove la mente controlla e domina il corpo segnando un’inedita e assoluta supremazia, un’identità si convincesse di avere poteri soprannaturali? Siamo realmente quello che crediamo di essere? Dove sta il limite, dove sta l’evoluzione, dove sta l’umano? E dove stanno, eventualmente, il sovrumano, il super-anti-eroistico, il maligno, l’inafferrabile, l’ancestrale? Split prende ispirazione dalla storia vera di Billy Milligan, affascinante criminale statunitense “non in grado di intendere e di volere”, e la rielabora molto liberamente estrapolandone le 24 identità nella “stanza” e le tre studentesse rapite per andare da tutt’altra parte. Crea, portando al massimo lo straordinario talento dell’attore scozzese James McAvoy impegnato in sostanza in otto ruoli con il medesimo volto ma con diversi accenti e modi di parlare, ben differenti gestualità e opposte psicologie, un reticolato tematico e narrativo di personalità in cui muoversi e in cui perdersi, in un percorso che continuamente svia, suggerisce, nega, quasi sembra entrare in contraddizione, ma poi senza alcun tipo di forzatura vede andare a posto e quadrare tutti i tasselli. Fra le identità dell’Orda coesistono la Bestia e un bambino di nove anni (che, una volta tanto nel cinema e per meriti, non sembra un adulto un po’ scemo ma quello che deve sembrare: un bambino ingenuo, ingannabile per le sue poche esperienze, ma profondamente intelligente e con inaspettati sprazzi di tenerezza), c’è l’ossessivo compulsivo e c’è la vittima designata, c’è l’aspirante stilista effeminato e c’è il macho maniaco della pulizia, c’è la donna indesiderata che torna alla luce e c’è un intero archivio di videomessaggi lanciati da ognuna delle identità che si alternano nella luce di Kevin, ognuno con le proprie caratteristiche anche fisiche, e ognuno pronto a impiegare gli ormai pochi barlumi razionali per scrivere alla dottoressa, sperando che possa capire e fermare la follia, la convinzione pericolosa, il sopraggiungere della ventiquattresima, cannibale e sovrumana identità, la Bestia. E poi c’è Casey, ulteriore doppio nel mare di doppi di Kevin, come lui segnata dalle sofferenze infantili, e quindi troppo «pura» nel suo dolore passato per poter soccombere.
Nel suo intrecciare il filone narrativo dei primi passi della Bestia con i continui flashback sul terribile passato di quella che sarà l’unica a sopravvivergli, Split prende le forme di un raffinato e destabilizzante thriller psicologico, ma è al contempo anche un inquietante horror, è anche un fantasy, è anche un’acuta lettura psicologica e umana del trauma e del disagio sociale, è anche un film di dolori giovanili venati di melodramma, è anche un romanzo di formazione che continuamente riflette sull’identità e sul corpo, ed è anche fantascienza, è anche medicina, è anche fumetto. Ed è anche una deliberata decostruzione di tutto questo in un pastiche che nella rilucente messa in scena ben ricorda, su tutte, le lezioni di Hitchcock (l’effetto Vertigo che già nella prima inquadratura isola Casey, le zenitali sulle scale, i dettagli delle chiavi…) e di Stanley Kubrick (le inquadrature dal basso mentre le ragazze spingono la porta mutuate da Shining), mentre lavora al contempo su un intero e personalissimo universo nascosto e sul fuori campo, su una trasformazione prima nel buio e poi in luce, su una figura che corre veloce nella notte percepita dai cani ma non dagli uomini, per definizione distratti al punto di lasciare inascoltato un ben chiaro allarme giunto via radio. Il cinema di M. Night Shyamalan viene portato all’esasperazione e alla probabilmente definitiva maturazione, con gli scantinati (rigorosamente di Philadelphia, questa volta dello zoo) che da ambientazione di scene madri (la scoperta della forza in Unbreakable, la sconfitta degli alieni in Signs, la scoperta dell’amore in The village) diventano la principale e quasi unica location, lo spazio chiuso e asfittico dal quale necessariamente partire per allargare davvero gli orizzonti e imparare a guardare, in attesa che il twist ending giunga a ricollocare e modificare tutto ciò che si è visto, con l’antropologia e l’afflato umano che si rincorrono verso nuove vette autoriali, e con le ferite, le cicatrici e il dolore che si ergono una volta di più a definitiva e salvifica rivelazione. C’è la sofferenza e c’è l’intelligenza, c’è la lotta e c’è la tattica, c’è la disperata volontà di capire, e ci sono i tragici errori di valutazione. Come in ogni lotta impari.
In una trilogia già di per sé rivoluzionaria nell’apparente indipendenza dei primi due capitoli in attesa che il terzo ne unisca e sviluppi i personaggi ponendosi come doppio seguito/crossover, mettendo in sostanza di fronte David Dunn ai due nemici l’Orda e Mr. Glass, M. Night Shyamalan ha creato un eroe e due antieroi potenti quanto fragili, come le indecisioni e come la paura dell’acqua di un supereroe che è in realtà uomo comune e fallibile con poteri che nemmeno sapeva di avere, o come le ossa sempre pronte e rompersi di Elijah, o ancora come i confini mentali fra le identità di Kevin messi in crisi e costantemente rotti dal semplice nome pronunciato per esteso, proprio come lo pronunciava quella madre/arpia causa di tutti i suoi traumi infantili e dell’emergere delle sue prime identità alternative. Un po’ come il ritrovarsi dell’Uomo Nero di fronte a un altro specchio, il volto e la voce che cambiano mentre quello che sembra un monologo si rivela  l’ennesimo vero e proprio dialogo fra le identità che si scambiano nel detenere il controllo, che si dividono la luce e che lasciano le altre nell’ombra, nel buio di una stanza, addormentate o impotenti di fronte al male. E a poco servono un coltello, o un fucile, o la paura, su un corpo ormai impenetrabile, protetto da una mente troppo forte. Solo il dolore, forse, può fermarlo. Solo la memoria, solo la consapevolezza, solo la storia che sta dietro a ogni cicatrice. O forse solo David Dunn, eroe silenzioso, mesto e improbabile, che conosce l’amore e che per suo conto sa agire. Lo scopriremo prestissimo.

Marco Romagna