SPIDERMAN: UN NUOVO UNIVERSO (INTO THE SPIDER-VERSE) (2018), di Bob Persichetti con Peter Ramsey e Rodney Rothman

Per trattare Into the Spider-verse, probabilmente il miglior film sull’Uomo Ragno di sempre e uno dei cinefumetti più riusciti da anni, bisogna partire da tre nuclei tematici che lo compongono, due caratteristiche del film che vanno comprese per analizzarlo e che costituiranno una sorta di mappatura per l’approfondimento: il suo rapporto col franchise di Spiderman e dunque col fumetto (e col mondo reale, in un ideale fumetto-mondo più grande di ogni cosa, come in Glass) e la perizia tecnica innovativa degli animatori.

Innanzitutto, c’è Peter Parker. Il film sin dal principio vuole far capire allo spettatore come il concetto stesso dell’uomo ragno sia cambiato e/o stia cambiando: dopo che, nel giro di poco più di un decennio, il franchise di Spiderman ha avuto ben tre rappresentazioni audiovisive di tipo seriale/continuativo (i tre film originali di Sam Raimi con Tobey Maguire, gli Amazing della Sony con Andrew Garfield e da poco con Homecoming l’entrata nel Marvel Cinematic Universe con le fattezze di Tom Holland), Into the Spider-verse comincia già geniale e diverso, con una voce narrante che in poco più di un minuto sbologna l’intera saga fumettistica di Spiderman con un riassunto superficiale e sbrigativo. ‘Questo è quello che dovete sapere sull’Uomo Ragno’, urla lo schermo agli spettatori, perché quello che parte da qui in poi è tutt’altro, quella di Peter Parker non è la trama ma il punto di partenza per qualcosa di più grande. Ciò ovviamente non significa che il film è un prodotto completamente scollegato dai fumetti; il protagonista, un ragazzo afroamericano di nome Miles Morales che si trova inavvertitamente a diventare erede di Peter Parker, è un personaggio cartaceo dal 2011. Quello che significa è che Spiderman come simbolo viene brutalmente superato. La storia di Spider-verse non è solo ricca di dialoghi spassosi e ironici che giocano sulla percezione del supereroe più consolidato nel nostro inconscio, ma è proprio una storia iconoclasta alla radice: Peter Parker muore dopo neanche mezz’ora, e la palla passa a Miles, che ha ottenuto gli stessi poteri. Se continuiamo a immaginare, come ormai la trilogia dell’Eastrail 177 ha consolidato, un legame stretto tra le icone dell’antichità (le figure mistiche, la mitologia) e la “nuova epica” dei supereroi, allora potremmo inquadrare la morale di Spider-verse in un’ottica non dissimile da quella che fortunatamente sempre più opere del genere supereroistico stanno cercando di integrare: “ognuno di noi è un supereroe”, che sembra un’asserzione da Bacio Perugina ma che forse nasconde qualcosa di più grande, un Sutra del Loto, una potenzialità di trovare grandezza e illuminazione anche in un maialino antropomorfo, in uno street artist adolescente che si vergogna di suo padre, in una bambina giapponese del futuro.

È, sì, un film nerd, che giochicchia senza rimorso con l’immaginario collettivo, cita qualsiasi cosa di qua e di là con meta-jokes sparsi che sono quasi tutti brillanti e azzeccati. È questa la cosa che stupisce, di Spider-verse; come sembra che quasi ogni scelta fatta sia stata la scelta giusta. Viviamo in un mondo complesso, e tra le sue caratteristiche c’è anche la landa arida del cinefumettismo gratuito in cui ogni film e ogni personaggio vive e respira solo in funzione della pre-percezione dello spettatore proiettatosi nella sua mitologia. Sì, non bisogna smettere di essere supereroi, di voler credere negli eroi e negli ideali di un qualcosa che ci supera, che passa dalla cultura (che, secondo le parole di McKenna, è «lo sforzo di conservare il mistero rimpiazzandolo con un mito») per poi trascendere, se si vuole continuare con quest’analogia. Il problema è che a volte è terribilmente difficile credere nel mondo cinefumettistico. La DC sforna porcate che si prendono troppo sul serio, mentre la Marvel si affida ciecamente a un pubblico completamente martoriato nel cervello da un’anempatia che a volte fa paura – e l’unico regista geniale che si è trovato a produrre blockbuster per loro, l’anarchico ex-Troma James Gunn, è stato licenziato per uno scandalo assolutamente futile. Certo, non è solo la Marvel, è anche la Disney, e con essa una serie di conglomerati industriali che ne mangiano altri, in un meccanismo in cui l’aspetto sovrasensibile dell’approccio al cinema come arte vera e propria a volte sembra svanire come un miraggio. Queste, tuttavia, non siano da vedere come visioni prettamente pessimiste, e se è così è proprio per Spider-verse, un film integrato in un franchise a budget altissimo (90 milioni), ma che riesce a esprimere anarchia, desiderio di espressione e sperimentazione, con l’autocitazionismo per i nostalgici, che può essere ridondante, qui dosato in pochi momenti coerenti. E ironicamente sembra più reale dei film del MCU, più sincero nella sua assurdità, più umano e meno rarefatto nonostante sia tutto pura rarefazione. È come se davvero fosse convincente nella propria presentazione del funzionamento degli universi paralleli, è come se convincesse il pubblico che quello che si vede è qualcosa di vero da un’altra parte, con in mezzo qualche portale onirico di traumi e psichedelia. Spider-verse non è un inno alla vita o un capolavoro autoriale, ma è una lucente pepita nel fango.

In ultima istanza, si giunge all’aspetto tecnico, che a dire il vero è la caratteristica più mirabolante di tutto il film e il vero motivo dietro la meraviglia nella visione, dietro questa (apparente?) libertà espressiva che riesce con così tanta efficacia a rendere credibile e potente l’Uomo Ragno dopo così tante rappresentazioni. Gli sceneggiatori Phil Lord e Christopher Miller, che sono tra i migliori nella commedia americana moderna proprio a causa del loro spirito parodistico e iconoclasta consapevole, hanno detto da subito che la loro idea includeva un tipo di animazione che potesse dare allo spettatore la sensazione di camminare tridimensionalmente all’interno di un fumetto. E ci sono riusciti. L’hanno anche inserito all’interno della narrazione – la presa di coscienza di essere diventato uno Spider-Man arriva insieme a un paio di battute che fanno intendere che ormai Miles è diventato proprio un fumetto. La verità è che c’è poco da descrivere: l’unione di tecniche 2D e tecniche 3D, con aggiunta di textures fumettose e stacchi di montaggio efficaci e creativi come quelli dei film di Edgar Wright, costruiscono un universo compiuto e interessante, che dimostra un lavoro di animazione dettagliatissimo e faticosissimo («era come lavorare a 5 film», dicono), che va direttamente esperito in tutto il suo colore. È pur sempre intrattenimento, che si spiega da solo… e, per una volta, è di grande qualità.

Nicola Settis