Fred Astaire è voce e danza, brillantina e velocità, presenza scenica e resistenza, coreografia ed eleganza. “I’m not Nijinsky, I’m not Marlon Brando”. Fred Astaire è il tip tap, l’impersonificazione della bombetta, o meglio ancora del Cappello a cilindro e del bastone, in un certo senso il simbolo stesso del passaggio dal muto al sonoro. Attore, cantante, ballerino, da Broadway a Hollywood, dai palchi d’avanspettacolo nei primissimi del Novecento ancora bambino con la sorella Adele ad altri cinquant’anni di immortalità, dal ’33 all’81, in nitrato d’argento e poi in celluloide con Ginger Rogers, con Rita Hayworth, con Bing Crosby. E con la divina Cyd Charisse, che insieme a Fred volteggia come una fenice nel suo vestito rosso. I loro passi sono pennellate sullo schermo, la loro sincronia un vortice di pure emozioni, la loro leggiadria nel Central Park della MGM un volo radente sulla Storia del Cinema e dello spettacolo, “That’s entertainment!”, ma anche molto di più. The Band Wagon (1953), titolo italiano Spettacolo di varietà, capolavoro e testamento artistico di Vincente Minnelli, è dichiaratamente il musical preferito di Martin Scorsese, del quale il cinefilo regista italo-americano possiede una ormai rara copia in 35mm stampata nel ’63 dai laboratori Technicolor e controllata al tempo nella gamma cromatica con il master d’archivio. Una copia quindi preziosa, perfettamente filologica e fedele, tenuta con religioso rispetto anche nell’unico rullo leggermente ballerino sulla tenuta del quadro all’interno del mascherino, splendidamente carica nei suoi colori saturi ormai non più ristampabili. Una copia che Martin Scorsese ha gentilmente prestato alla Cineteca di Bologna per proiettarla, nell’ambito del Cinema Ritrovato, nella cornice all’aperto di Piazza Maggiore, regalando l’ennesima serata indimenticabile a una delle kermesse più irrinunciabili per i cinefili di mezzo mondo.
Spettacolo di varietà, prima di tutto, è un ritorno, è una riappropriazione, è una presa di coscienza e in un certo senso anche un atto di umiltà. È l’intrattenimento che si prende una divertente e divertita rivincita sulla pretenzione, sulla tragedia ad ogni costo, sull’ubris di chi crede di “poter fare tutto”. Spettacolo di varietà è il saper stare al proprio posto, è il giocare secondo le regole, è fare il passo (di danza) secondo la propria gamba, è l’avere il proprio giusto spazio su un palcoscenico che è il mondo e in un mondo che è un palcoscenico. “That’s entertainment!” è la sintesi della contrapposizione fra l’essenza stessa della commedia come passatempo popolare e il regista-attore-produttore “mefistofelico” Cordova (Jack Buckanan), che si atteggia a Orson Welles senza essere Orson Welles, senza tenere in conto il target, senza tenere in conto le forme della rappresentazione, senza tenere conto i gusti del pubblico. Convincerà con la sua arte oratoria da, questo sì, attore consumato – dando vita a una sequenza fra le più divertenti del film – i finanziatori e il cast a credere in un progetto strampalato, tracotante, destinato al flop. Fino a quando non ne riprenderà le redini il “vero” grande artista, riportando la giusta dignità e la necessaria considerazione alla commedia come sogno ad occhi aperti. Tony Hunter sta a Fred Astaire come il Calvero di Luci della ribalta sta a Charlie Chaplin, è un personaggio cucito a misura sull’interprete, una sua proiezione, una sua rappresentazione, un suo paradigma con cui prendersi gioco – e Astaire lo fece ancora a lungo – della senilità che stava avanzando. Tony Hunter è il grande attore ormai quasi dimenticato nella sua mezza età, più volte – come Astaire – ritiratosi dalle scene, e ora rilanciato nel rutilante mondo di una Broadway-Hollywood che cambia. Emblematica la sequenza in cui non ritrova i teatri e non riconosce i luoghi guardandosi riflesso negli specchi deformanti come perso fra i flipper e gli antenati dei videogame, evidente riferimento alla seconda grande rivoluzione del cinema, il passaggio dal bianco e nero al colore di cui Astaire stesso è stato testimone e protagonista. Oppure si veda la sfuriata di Tony contro Cordova dalla quale nascerà finalmente l’intesa fra gli altri attori e in particolare con la ballerina Gabrielle Gerard (Cyd Charisse), o ancora la fallimentare prova generale del Faust pretenzioso interrotta per il fumo dovuto alle troppe scariche pirotecniche: Vincente Minnelli traccia nelle forme della scanzonata commedia musicale un affresco del teatro e del cinema, com’era la vita artistica nei cinquant’anni precedenti, com’era diventata in quel periodo di transizione, come sarebbe stata negli anni a venire. C’è la centralità del regista e dell’attore, ci sono le prove, ci sono i sacrifici, ci sono i sotterfugi – come quando, per ottenere Gabrielle, Cordova ingaggia e poi provoca in un crescendo irresistibilmente spassoso il coreografo e fidanzato della ballerina –, ci sono gli sceneggiatori, ci sono gli esseri umani con le proprie debolezze e paure di essere inadeguati, ci sono le incomprensioni, ci sono i litigi, ci sono le direzioni che si rivelano sbagliate e da cambiare. Ci sono i noiosi ricevimenti ufficiali e c’è la genuina aura di sincera condivisione in una festicciola improvvisata e spontanea, ci sono i fallimenti dai quali rialzare la testa, ci sono gli introiti, c’è la tournée, ci sono le grandi e piccole ipocrisie di uno star system che si stava sfaldando. Ci sono i sentimenti che nascono in un vortice di inaspettata tenerezza, anche quando apparentemente impossibili.
Vincente Minnelli è universalmente riconosciuto come grande maestro del musical, ma anche del melodramma e più in generale della messa in scena. È (stato) un Autore a tutto tondo, a suo modo uno sperimentatore, un pilastro del linguaggio cinematografico, un pioniere di un Technicolor fondamentale per le sue regie sfarzose e abbacinanti, interprete immenso dell’età dell’oro di Hollywood. Spettacolo di varietà quindi, nel porsi come nobilitazione del genere di riferimento, ne ricalca sì le forme, ma con evidente mano autoriale per la quale non c’è un solo movimento di macchina né stacco di montaggio che non sia assolutamente perfetto, sincronizzato, incrociato, parte fondamentale delle coreografie realizzate da Fred e Cyd. La macchina da presa non si limita ad essere finestra sull’abile incrocio fra narrazione e numeri musicali, ma si muove come un protagonista aggiunto, precisa come una ballerina di tip tap, leggiadra come una stella della danza classica. Per fare un esempio perfettamente assimilabile e non a caso proiettato anche a Bologna – in un’altra splendida vintage print 35mm – solo poche ore prima di The Band Wagon, nel forse ancora più celebre Cantando sotto la pioggia antecedente di solo un anno al film di Minnelli sono frequenti carrellate avanti e indietro, così come panoramiche laterali andata e ritorno, che hanno il solo scopo di mostrare le evoluzioni di Gene Kelly, anche regista del film insieme a Stanley Donen. Questo, in Spettacolo di varietà, non accade invece quasi mai, sostituito da una cura sia per i totali sia per i dettagli che prevede punti macchina originali e ancora oggi arditi, stacchi di montaggio netti e precisi, colori vividi e caldi, in una costante coreografia che porta il film a essere linguisticamente avanti anni luce rispetto al suo pur illustre predecessore. Anche nel perfetto bilanciamento, grazie all’impianto metateatrale, fra parti narrative e parti cantate e ballate.
Capita infatti spesso nei musical, ma questa è una considerazione personale, che i numeri musicali possano risultare forzati, stucchevoli, patinati nella scarsa credibilità di un “protovideoclip” in mezzo alla strada nell’indifferenza dei passanti per i quali parrebbe normale che alcuni si mettano a cantare. Con l’esclusione della sequenza con il lustrascarpe, invece, Spettacolo di varietà contestualizza perfettamente quasi tutti i numeri, ponendoli saggiamente fra il palcoscenico e l’intimità, non di rado con musiche diegetiche, e in generale limitandone l’uso, concentrandosi sulla narrazione e sulla danza piuttosto che sul canto. Una danza che è più che mai linguaggio del corpo, cinema, poesia. Perfezione: del gesto, della sincronia, di una leggiadria che si fa sublime. Una danza fatta di passi che sono pennellate sulla celluloide e sulla storia dell’immaginario, sono sentimenti, sono lo scoprirsi a vicenda per ritrovarsi. Non c’è spazio per la “scena della dannazione”, non c’è spazio, forse, per “l’alta levatura morale” che avrebbe voluto Cordova, non c’è spazio per le lacrime e la devastazione: del resto, “That’s entertainment!”. Ma di sicuro non mancano il messaggio, la passione, l’onestà, il talento, la riflessione quasi retrospettiva ma non certo fuori tempo massimo, l’amore per l’arte e per il mezzo cinema. Da Broadway a Hollywood, Fred Astaire nel ruolo di se stesso. Come nella sequenza noir-jazz, dove il film trova il suo apice. Si tratta dell’ultimo numero dello show, sorta di cortometraggio di per sé sufficiente per giustificare un capolavoro: è il cinema che entra di prepotenza nel teatro, fonde i linguaggi e omaggia altri generi, crea una spirale magnetica di passione, arte e magia. L’apertura e la chiusura sui totali, la voce fuori campo, i tagli di luce laterali e misterici, le scenografie che quasi sembrano riprendere il decisivo apporto di Dalì nella sequenza onirica di Io ti salverò di Hitchcock, il viola come colore dominante. Un omicidio, Fred Astaire con guanti e sigaretta d’ordinanza fra Il lungo addio e Sin city, Syd Charisse irresistibile nel vestito sgargiante, la calda passione del tango, il saloon, le scazzottate, l’eleganza, le vertigini del movimento a spirale della macchina da presa. Si tratta di una sequenza assolutamente straordinaria, al contempo oggetto alieno alla narrazione e cuore pulsante del film, una sequenza che solo un gigante come Minnelli circondato da altri giganti come Astaire e la Charisse avrebbe potuto concepire. Una sequenza che è il cinema, il suo fascino magmatico, il suo magnetismo, il suo mistero, il suo aspetto ludico nella commistione di mezzi e di generi. That’s a musical, that’s Fred, “That’s entertainment”. Del resto tutto è metafora, tutto è coreografia, tutto è palcoscenico. Anche e soprattutto la vita. E Spettacolo di varietà, detto da chi i musical, Rocky Horror Picture Show e poco altro a parte, non li ha mai particolarmente amati, era e rimane un sogno dal quale non ci si vorrebbe mai svegliare, un capolavoro assoluto e conclamato, un film indispensabile.
Marco Romagna