SPECTRES ARE HAUNTING EUROPE (2016), di Maria Kourkouta e Niki Giannari
A spectre is haunting Europe — the spectre of communism. All the powers of old Europe have entered into a holy alliance to exorcise this spectre: Pope and Tsar, Metternich and Guizot, French Radicals and German police-spies.
Karl Marx, Manifesto del Partito Comunista
A Idomeni piove. Battente, quasi incessante, come un’ulteriore persecuzione per chi ha già perso tutto, e ora si trova in fuga ma non in cammino, forzatamente bloccato nella cittadina al confine fra Grecia e Macedonia dalla chiusura delle frontiere. Piove sulle tende, piove sulle teste delle persone, piove sul tufo, destinato a diventare fanghiglia, sporca e viscida. Piove sulle scarpe aperte, rotte, troppo grandi o troppo piccole, che in questa melma affondano tentando di non scivolare, piove nelle ciotole in cui si attende che venga versato il rancio, pazientemente in fila come nell’esercito, o come in un carcere d’antan. Eppure, queste quindicimila persone accampate nelle tende e falcidiate anche dalle intemperie non sono combattenti, non sono galeotti, non sono colpevoli: sono normalissimi uomini, donne e soprattutto tanti bambini, provenienti dalla Siria, dall’Iran, dal Bangladesh – le guerre lasciate faticosamente e dolorosamente alle spalle, la fame e la miseria che ancora li attanagliano, una speranza all’orizzonte chiamata Germania, il cuore pulsante di quell’Europa che ora ha chiuso i confini nazionali e che li tiene bloccati in uno squallido campo profughi da giorni, settimane, mesi. Da marzo a maggio 2016, per l’esattezza, il tempo in cui Maria Kourkouta e Niki Giannari hanno raccolto il materiale filmato di Spectres are haunting Europe, che trova nella sezione TFFdoc Internazionale del trentaquattresimo Torino Film Festival la sua prima italiana.
C’è un curioso quanto drammatico filo rosso che lega Spectres are haunting Europe a un altro film documentario proiettato in questi giorni a Torino, quel Ta’ang di Wang Bing che, dalla prima assoluta di febbraio alla Berlinale, sta proseguendo il suo percorso festivaliero – lo avevamo già reincontrato in diverse occasioni, da Locarno a Lisbona, e speriamo di vederlo ancora per almeno qualche mese sulle pagine dei vari programmi – per raccontare all’intero mondo la quotidianità della minoranza etnica dei Ta’ang in fuga dalla guerra, con le donne e i bambini costantemente in marcia sul confine fra Cina e Myanmar. Nel film di Wang Bing, sono l’Asia e il cammino, in questa sorprendente opera greca, sono invece l’Africa-Europa e l’immobilismo imposto, il sogno congelato, nella drammatica speranza che non venga negato, a poche tappe dal suo coronamento. Gli ospiti del campo profughi sono di diverse nazionalità ma in buonissima parte curdi, diversa storia alle spalle rispetto ai Ta’ang ma minoranza ugualmente repressa, tutti in fuga dalle guerre civili e internazionali, tutti in fuga dai fondamentalismi e dal terrore, tutti in fuga dalla povertà e dai diritti negati verso un periodo di altra povertà e di altri diritti negati, ma almeno con un briciolo di speranza in fondo all’orizzonte, negli occhi e nel cuore. Come a dire che cambiano le situazioni, le microstorie, le contingenze storiche, ma tutto il mondo è paese, tutto il mondo è guerra, tutto il mondo è intolleranza, tutto il mondo è paura, fuga, sogno, oppure incubo. E, come è solito fare Wang Bing in maniera straordinaria, anche Spectres are haunting Europe si pone da subito dalla parte del Popolo, dalla parte di quel sottoproletariato costretto ad abbandonare la propria terra ormai divenuta inospitale, dalla parte di chi ha sofferto e soffre, calpestato ma con la testa ancora alta, e con ancora il coraggio di rimettere tutto in discussione per riaffermare se stesso e la propria dignità: “Siamo esseri umani”.
“Open the border”, aprite il confine, è il coro incessante degli esuli protagonisti del documentario destinato a diventare un mantra, una preghiera disperata, un urlo di dolore e poi di battaglia, con la decisione di bloccare i binari sui quali transitano i treni merci internazionali fino a quando la situazione profughi non verrà discussa seriamente e sbloccata. E il film, che fino a metà aveva mostrato, con fotograficamente mirabili quanto necessariamente estenuanti pianisequenza fissi spesso ad altezza bambino, la lunga e (im)paziente attesa, la quotidianità disperata e ogni giorno identica, la povertà e la profonda dignità umana dei migranti, cambia a questo punto radicalmente, virando sulla politica, e vola nella complessità di un’Europa fantasma nel lanciare il sasso e poi nascondere la mano che rende anche chi la vorrebbe arricchire un’ulteriore presenza fantasmatica, lasciandolo solo, dimenticato, fermo nel fango, sotto la pioggia. Da una parte ci sono le indiscutibili ragioni dei migranti, la loro vita abbandonata alla ricerca di un briciolo di normalità, e ora il silenzio e l’immobilismo che dall’alto attanagliano la loro situazione anche durante uno sciopero della fame; ecco quindi la legittimità del loro sit in sui binari: fermare i treni per fermare un qualcosa di economico, come a pestare un piede a chi sta guardando troppo in alto per farsi notare. Dall’altra parte però, a venire danneggiata dai sabotaggi sarebbe proprio la Grecia, forse lo Stato europeo meno in salute economica, di sicuro non lo Stato dove i migranti vorrebbero fermarsi e dove ora sono come intrappolati, eppure l’unico Stato che li ha effettivamente accolti, l’unico Stato che, nelle frontiere chiuse e nel silenzio assordante generale, parrebbe sinceramente disposto ad adottarli, concedendo loro asilo politico. L’impotenza di un Popolo contro l’impotenza dello Stato che li sta cercando di proteggere è come un gatto che si morde la coda, in un’Europa all’apice della propria islamofobia nei mesi immediatamente successivi agli atroci attentati di Parigi. Senza calcolare né la cittadinanza, francese o belga, degli attentatori che in Europa ci sono nati, né soprattutto che i rifugiati del campo di Idomeni è proprio dal Daesh che stanno fuggendo, da quello spettro informe e senza confini autoproclamatosi Califfato Islamico: le vittime vengono scambiate per colpevoli, e ancora schiacciate, punite, ghettizzate. Umiliate, giorno dopo giorno.
Maria Kourkouta e Niki Giannari rimangono nel campo con i rifugiati, conquistano la loro fiducia, si bagnano e si sporcano con loro: li seguono, rimangono accanto, li prendono a cuore, li sostengono, eppure optano, nel filmarli, per una fissità assoluta della macchina da presa, interrotta solo da una panoramica con il cavalletto risistemato verso un altro punto. È una scelta che si rivela elegante, eppure fisicamente distante da una realtà che invece colpisce così nel vivo; una scelta che, se non fosse per il colore al posto del classico bianco e nero, ricorderebbe quasi i lavori di Sergej Loznitsa, la sua geometria, la sua lucidità visiva, i suoi tempi dilatati, necessari in questo caso per entrare in empatia con i rifugiati e con la loro quotidianità. Ed ecco che quel tacco rotto che si trascina nel fango acquista, nei long take di Kourkouta-Giannari, un valore metaforico straziante: è la fame delle vittime, è la loro povertà estrema, è il loro non avere più nulla, ma anche la loro capacità di appoggiare il piede solo sulla punta, riuscendo a continuare a indossare la scarpa anche se rotta senza perdere una sola briciola di dignità. Una ciabatta da mare per mostrare la devastazione, mentre gli avvocati parlano inascoltati di leggi internazionali, i treni vengono fermati e i bambini continuano a giocare, anche nel fango, anche sotto la pioggia, come se nulla fosse. No, la distanza della macchina da presa in questo caso non è affatto una mancanza di pathos o di cuore: al contrario, quella della macchina fissa e non così vicina a chi è inquadrato, a dispetto della vicinanza umana dei registi, è una ben precisa scelta estetica e linguistica che, proprio come in Loznitsa, permette alle immagini di penetrare forse ancora più in profondità nelle teste e nei cuori, e contribuisce inoltre, in questo caso, a rendere ancora più potente il finale in cui quest’impostazione verrà ribaltata. Negli ultimissimi minuti, Spectres are haunting Europe vira infatti ancora e radicalmente, e come prima è passato dall’umanità alla politica ora si dirige verso la più pura epica, con l’inquadratura fissa che diventa macchina a mano, con la distanza che diventa la contiguità di un bambino che fa linguacce all’obiettivo, con il colore che diventa bianco e nero, con il 16/9 che diventa 4/3, con il digitale che diventa pellicola 16mm, e la voce fuori campo che arriva a cantare, quasi secondo tradizione che fu di Omero, dei fantasmi “senza patria e senza cuore”, eroi epici in un mondo di smemorati storici. Le immagini diventano senza tempo, come cristallizzate ma al contempo sempiterne, come storiche ma al contempo sempre urgenti, mentre a Idomeni gli uomini vivono come paladini la propria ricerca di normalità. Nelle immagini in bianco e nero, i volti sono gli stessi che fino a poco prima, a colori e con l’audio, parlavano fra di loro, recitavano slogan, facevano valere le proprie ragioni, eppure il loro significato ora è diverso: questi volti diventano quelli degli eroi di ogni giorno e di ogni tempo, fra quelli dei valorosi caduti che da sempre vengono sepolti nei territori di confine e quelli di chi combatterà contro tutto e contro tutti pur di ottenere la propria libertà. Questi volti diventano l’incarnazione stessa della speranza, della Storia, della gente, della vita. “E ora silenzio, che tutto si fermi, stanno passando”.
Marco Romagna