SPECTATEURS! (2024), di Arnaud Desplechin
«Je reste!», tuona e cerca (invano) di imporsi il (troppo) piccolo (e ancora una volta redivivo) Paul Dédalus quando, durante la proiezione di Fantomas70, la sorellina ha paura e chiede di andare via da quella prima e folgorante volta nella magia di una sala cinematografica. Quella stessa sorellina che, ora non più immedesimata nel ruolo ma semplicemente giovanissima attrice, o meglio spettatrice, fra i mille volti intervistati da Desplechin sul proprio rapporto con il cinema, parla dei primi film che si ricorda e di quelli che ama, di quelli che ha visto più volte e di quelli che proprio non le piacciono, di quelle liste su cui segnare e catalogare le visioni e di quelle lacrime che possono scendere spesso oppure di rado, ma che prima o poi, nel buio di una sala, finiranno inevitabilmente per inumidire gli occhi rapiti ed emozionati di fronte a uno schermo. Concentrati sulle immagini da quel posto preferito in sala che è prerogativa unica e personalissima di ogni singolo cinefilo, il proprio punto di vista dello schermo da cui sviluppare il proprio modo di guardare un film. Tanto che lo stesso Paul, ormai cresciuto e inseguito da ben due ragazze, sarà ben felice di incontrarle in coda prima dello spettacolo e di accettare il loro appuntamento per la fine del film, ma durante la proiezione di Coppola non potrebbe mai e poi mai rinunciare alla sua poltrona in settima fila, leggermente spostata sulla sinistra. Un posto da cui guardare sì lo schermo, ma anche dal quale ogni tanto girarsi affascinati verso la cabina, verso il ticchettio di quel proiettore che gira restituendo il tempo incapsulato nelle immagini in movimento, verso quella lama di luce che squarcia l’oscurità per condividere una visione, un sogno, un trasporto, un (magnifico) inganno, un’ossessione bruciante, il feticismo di un fotogramma che si blocca fra gli ingranaggi e si incenerisce nel calore della lampada. Ciò che di più profondo lega un cinefilo a una sala. È per questo che Spectateurs!, nuovo e strepitoso lavoro con cui Arnaud Desplechin riscatta ampiamente Frère et Sœur unico reale passo falso in carriera tornando ancora una volta, come si diceva, all’alter ego joyciano Paul Dédalus nove anni dopo Trois souvenirs de ma jeunesse e addirittura diciotto dopo la sua prima apparizione in Comment je me suis disputé… (ma vie sexuelle), passando per l’Ivan (e non più Paul) Dedalus di Louis Garrel che di intrecciava con i Vuillard altra famiglia ricorrente nella filmografia dell’autore francese in Les Fantômes d’Ismaël, forse non è in assoluto il miglior film del 77mo Festival di Cannes che lo ha presentato fra le Séances Spéciales, ma è probabilmente quello più emozionante, quello più coinvolgente, quello più toccante, quello che, con il passare del tempo, più rimarrà nel cuore. Quello in cui più facilmente riconoscersi e rispecchiarsi nella propria passione e nelle proprie (in)evitabili piccole manie, nel ritrovare messo in luce proprio quel dettaglio da cui si è da sempre segretamente sedotti, nel riscoprire fra le mille possibili forme di un personalissimo amore per il cinema il proprio stesso personalissimo amore per il cinema.
Un film che non raggiunge e in realtà nemmeno cerca lo stesso livello di speculazione teorica e filosofica dell’apertamente godardiano, e per molti versi affine fino a costituire una sorta di dittico, C’est past moi di Leos Carax, ma che lambisce i medesimi territori di senso della cinefilia come senso della vita guardando semmai a François Truffaut (omaggiato apertamente per la straordinaria semplicità dei titoli di testa de I 400 colpi, ma in realtà anche molto più a monte: che cos’è a ben vedere Paul Dédalus nel suo continuo reincarnarsi – seppure non solo in Mathieu Amalric – se non l’Antoine Doinel di Arnaud Desplechin?) per sperticarsi in una commovente dichiarazione d’amore (para)autobiografica al cinema e ai motivi per cui lo si ama, che da qualche parte fra la pellicola, il digitale, il documentario, la finzione, il diario intimo, i ricordi, l’archivio, la critica, la filosofia e (soprattutto) il film-saggio finisce per abbracciare e raccontare tutti noi, spettatori appassionati e sognanti, felicemente disposti ad aprire gli occhi e guardare, felicemente disposti a delegare il punto di vista a un regista, salvo poi scegliere il punto di vista da cui guardare quel punto di vista. Del resto, è (da) sempre l’atto di guardare, il centro dei film di Desplechin. Che a farlo sia un cineasta in crisi (Les Fantômes d’Ismaël), uno scrittore che cerca storie e parole nella vita (il bellissimo Tromperie così come il deludente Frère et Sœur), un agente di polizia che stringe il mirino sui sospettati (Roubaix, une lumière) o ancora, come qui, una ragazza che spia gli altri personaggi da una vetrina, apparentemente sconsolata per la perdita di un amore e di un’amicizia e invece vera e propria regista pronta ad esultare quando scatterà il bacio fra Paul e la sua amica, letteralmente spinta fra le braccia del protagonista/alter ego. Un guardare, allo schermo e alla vita, che Desplechin analizza, documenta, mette in scena, monta, reinventa, rivive in ogni sua sfaccettatura, in un film magnificamente inclassificabile che parte dalla cronistoria e dai documenti del precinema con cui inseguire una magia e intrappolare il tempo (il montaggio interno nei dipinti, le sfocature, i punti di fuga, le fotografie in sequenza della costruzione della Tour Eiffel, fino al fucile cronofotografico di Marey, al cavallo in corsa di Muybridge, all’occhio solitario nel kinetoscopio di Edison, e infine al treno dei Lumiére, al treno di Scorsese, al treno di Hitchcock, al flusso di immagini), per poi virare più volte all’improvviso, fra narrazioni (ri)costruite da film del passato e narrazioni inventate di sana pianta, riflessioni personalissime e riflessioni di ogni cinefilo, lunghe digressioni su Shoah film-chiave che nelle sue nove ore ha cambiato per sempre la vita (e quindi lo sguardo) di Desplechin (con il suo saper essere l’olocausto, e non semplicemente rappresentarlo, così simile al ruolo che ha avuto nella formazione di chi scrive l’epifania giovanile di Anna e del meraviglioso fallimento cinematografico, perché vince la vita, di Alberto Grifi) e interviste frontali a una piccola grande Babele di Filmlovers, come da evocativo titolo internazionale di Spectateurs!, che nella fotogenesi di una macchina da presa e di un’immagine che si materializza su uno schermo cercano e trovano una ri-creazione del mondo in cui dolcemente perdersi, imparare, ragionare, crescere e vivere. Formare il proprio immaginario intrecciando le parabole dell’esistenza con le scene vis(su)te in una sala, la realtà (dei luoghi, dei tempi, degli esseri umani) che inevitabilmente emerge anche dalla più completa messinscena con la più completa messinscena in cui identificarsi e cercare – traslati su un paradigma inventato e ora riproducibile – di capirsi nel corso degli episodi-chiave della vita “vera” (che poi, a ben vedere, nient’altro è a sua volta che un continuo recitare se stessi). Fino a rendersi conto di come i film visti facciano a tutti gli effetti parte della biografia e delle esperienze personali, come diventino spezzoni perfettamente intercambiabili con un ricordo di eventi reali attraverso i quali riscoprirsi ogni volta (ac)cresciuti: una sorta di memoria condivisa, una riproduzione di se stessi, un’interminabile indagine, un ininterrotto romanzo di formazione di sguardi insistiti verso gli schermi, su cui vivere pezzi di vita, su cui formare ricordi veri, immaginari e potenziali, su cui provare in prima persona amori, delusioni e idiosincrasie, su cui sentire fino in fondo il calore di risate, riflessioni e lacrime.
«Cosa accade alla realtà quando la proiettiamo?», si chiede Desplechin, fra riavvolgitori e giuntatrici, fra ingranaggi e croci di malta, fra Scorsese e Godard, fra Bergman e Melville, fra Vertov e Orson Welles, fra Bresson e Abel Gance, fra Dreyer e Rossellini. Fra ricordi e visioni, da quelle righe “per simpatia” con la forchetta sulla tovaglia di casa vedendo per la prima volta Io ti salverò a quel viaggio quattordicenne in cui mentire sull’età per vedere in sala gli enormi primi piani di Sussurri e Grida, così opposti alle figure nel paesaggio de Il cacciatore. Dalle lezioni universitarie in cui capire il senso semiotico del proprio vissuto spettatoriale a quella proiezione in 16mm organizzata a scuola per introdurre, (far) vedere e personalmente maneggiare Le Margheritine, con quella ragazzina che sale in cabina per guardare Paul e Paul che invece guarda (e studia, e subito ama) le immagini di libertà di Věra Chytilová. Perché «non puoi sapere se stai dormendo, ma puoi sapere se sei sveglio», testimone ad occhi aperti di un sogno ad occhi aperti, di una verità che è finzione e di una finzione che è verità, del senso stesso della meraviglia, o forse della propria vita vissuta, del proprio commuoversi di pura emozione, del proprio comprendere e del proprio condividere. Della propria necessità di viaggiare, e di metterci letteralmente la faccia, per amore e per gratitudine, per omaggiare la tomba di Lanzmann e per confrontarsi con chi meglio di chiunque altro lo ha studiato e capito, o per ritrovare Kent Jones critico statunitense, (mediocre) regista e amico di Desplechin dai tempi in cui fu co-autore della sceneggiatura del suo Jimmy P., per ripensare a come un’intera vita possa essere stata ispirata dal montaggio di Sam Peckinpah ne Il mucchio selvaggio. Undici capitoli, ognuno con il suo titolo, di cinema e di visioni come acqua, fuoco, vento, treno che deraglia, aereo in picchiata, (im)possibile ma consapevole fiducia in un inganno chiamato spettacolo. Tutto è azione, tutto è linguaggio, tutto è genere, tutto è sogno, tutto è incarnazione. Tutto è visione, pubblica, privata, solitaria, familiare, al Nuovo Sacher come al Grand Theatre Lumiére, in Europa come in America o in Giappone, in una saletta d’essai di periferia come ai Festival più importanti del mondo. Tutto è vedersi rispecchiati negli altri, in un giovane che scopre la semplicità dei classici e che sembra evidente voglia diventare a sua volta regista. Forse proprio un nuovo Mathieu Amalric, che ritorna nel finale ancora una volta a vestire i panni di Paul Dédalus per scoprire in fondo al bancone un ulteriore potenziale Paul Dédalus, che cambia ancora una volta età, volto e colore della pelle ma non la sua passione verso il cinema. Che poi è quella di Arnaud Desplechin, allo stesso modo entusiasta e con gli occhi allo stesso modo pieni di immagini. Che poi è quella di tutti noi, che dalla nostra poltrona non riusciamo a smettere di vivere le immagini, né a distogliere lo sguardo, né a chiudere gli occhi. Figuriamoci a farli asciugare, gonfi di commozione verso un film bellissimo, storia (vera, inventata, ricostruita, documentaria, speculare, sognante) della vita, degli stimoli e dei ricordi di chiunque lo guardi.
Marco Romagna