SPECIAL ACTORS (2019), di Shinichiro Ueda

Lo schema è più o meno lo stesso di One cut of the dead. Una matrioska apparentemente infinita di finzioni e di sipari da squarciare uno dopo l’altro, per scoprire come alle loro spalle non ci siano altro che nuovi e sempre più elaborati livelli di messinscena. Ogni apparente realtà si rivela recita e depistaggio che contiene al suo interno infinite recite e depistaggi, e ogni momento si rivela parte scritta e simulata di un disegno via via più grande che ogni volta ribalta ruoli, punti di vista e situazioni fino a rimettere in discussione l’esistenza stessa della realtà se non come rappresentazione. Ma, per quanto siano tutto sommato simili gli spunti teorici e ci sia alla base la medesima elevazione del kitsch cinematografico di serie B (ma forse anche Z) a passione talmente forte e pura da rivelarsi l’unica possibile salvezza, nell’approcciarsi all’attesissima opera seconda di Shinichiro Ueda Special Actors non si pensi troppo alla potenza irresistibilmente spassosa e incessante del suo miracoloso debutto. Da prima produzione “industriale” con la Shochiku dopo il successo planetario del geniale esordio realizzato a costo bassissimo, ma soprattutto da prosieguo della carriera di un regista trentacinquenne che vuole evolvere la propria autorialità con coerenza ma senza ripetersi, il lavoro presentato in prima europea fra le Voices di Rotterdam 2020 non ha e nemmeno vuole avere il medesimo umorismo della strabordante commedia zombie metalinguistica di due anni fa. Vuole replicarne solo a tratti la freschezza e la comicità giocosa per lanciarsi in un lavoro cinematografico di genere e tono differente, che per quanto forse non altrettanto folgorante si rivela ancor più maturo per contesto, linguaggio e costruzione. Un lavoro che parte dallo stesso sentiero concettuale, allontanarsi gradualmente dal particolare per risalire progressivamente fino alla visione d’insieme, per scartare verso altre forme, verso strutture narrative ancor più compiute e complesse, verso verità teoriche ancor più ambiziose e universali. Non più (solo) sul metacinema e sul punto di vista come in One cut of the dead, ma questa volta ancora più a monte, sul ruolo dell’attore. Perché recitare, sin dal primo υποκριτής della tradizione ellenica da cui non certo per caso viene l’etimo di “ipocrita”, vuole sempre dire fingere, mentire, ingannare, frodare. Tradire, per molti versi. Con il potere salvifico di essere creduti e di regalare emozioni, di (far) rivivere o modificare momenti, di fare emergere la realtà attraverso una sua distorsione messa in scena, e forse a volte persino di cambiare in meglio una persona e una vita. Ma alla base c’è sempre una montatura, una contraffazione da narrare e spacciare come verità, una costante truffa nei confronti di quel pubblico, che sia o meno anche attore (in)consapevole della medesima commedia, ben felice di essere truffato dalla plausibilità del falso. Dipende solo da quante e quali sono le informazioni in suo possesso, dipende solo da quale livello di finzione sembra al momento quella realtà oggettiva che non è e che forse non potrà mai essere. Perché la realtà è sempre e solo soggettiva, fatta di percezioni e di convinzioni, e quindi modificabile a piacimento dal truffatore che sta più in alto e che tesse le trame, scrive le sceneggiature, immagina le possibili situazioni e i possibili bivi dai quali fare evolvere e scartare almeno una scheggia di narrazione. Forse persino la stessa sopravvivenza dipende dalla capacità di fingere, dalla capacità di estraniarsi dalla realtà e credere al falso, dalla capacità ancora tutta da acquisire di dissimulare quella soffocante sofferenza che fa svenire l’insicuro protagonista ogni volta che è sotto pressione. Alla ricerca di quel nuovo ruolo, poco importa se bizzarro, da interpretare per tentare di cambiare il mondo o per lo meno se stesso. Ma andiamo per ordine.

Sono tutto sommato simili a quelli del recente Family Romance, LLC di Werner Herzog, gli “attori speciali” protagonisti di Special Actors. Interpreti senza necessità di palcoscenico né di macchine da presa per cui ogni luogo può essere set, abili a esaudire ogni domanda del pubblico fingendo ogni identità e circostanza, camaleontici nel cambiare ruolo e far vivere, in ambienti ricostruiti così come in giro per il mondo, sempre sporgendo la loro finzione sul crinale della realtà, ogni situazione richiesta (d)al committente. Sostituiscono affetti, rendono un successo di risate e applausi le prime (con tanto di gioco ad autocitare One cut of the dead) al cinema, rievocano momenti passati cambiandone radicalmente quel finale che nella realtà fu amaro, e a volte, seguendo le richieste più complesse, tentano di cambiare anche il futuro, riportando alla normalità chi è stato inghiottito da una qualche spirale di altri truffatori – e quindi attori. Fra la scrittura, il casting, la regia e tutti gli interpreti necessari per le parti richieste dal copione, Shinichiro Ueda intelligentemente organizza i suoi Special Actors in veri e propri ruoli cinematografici attraverso i quali tessere la metafora e ragionare teoricamente su un metacinema senza apparente metacinema, per poi spingerli in una lotta fra attori che non potrà che essere risolta da un aperto overacting di possessione, luci e movimenti di scatto, da decine di comparse, da litri e litri di sangue fasullo e da trascinanti rimesse in scena (con tanto di gustoso doppiaggio giapponese volutamente fuori sincrono) delle ridicole mosse dei più improbabili supereroi di quel peggior cinema grindhouse anni Settanta/Ottanta con cui tutti i cinefili, è inutile negarlo, sono cresciuti. È una questione di sguardo, di vero, di falso, di punto di vista, di credere o di sapere, con in mezzo tutte le possibili declinazioni del credere di sapere. Dall’incipit con il provino disastroso e il primo svenimento fino all’incontro “casuale” del protagonista con il fratello da cui verrà introdotto fra gli Special Actors, dalla pallina antistress con cui in qualche modo sostituire quel seno che non c’è mai stato alle serate ancora passate di fronte a quel vecchio VHS dell’inesistente Rescueman, dalla richiesta della giovane cliente di salvare la sorella dalle grinfie della setta religiosa che le ha fatto il lavaggio del cervello alla vera e propria sigla da serial TV che giunge dopo quasi mezz’ora di spassosi preamboli a far deflagrare i titoli di testa, Special Actors ragiona sulla capacità di sceneggiatura, attori e direzione, e quindi del cinema, di spingere al massimo la (auto)suggestione di chi guarda. Tanto che, nell’aperta sfida con la (bislacca e fittizia) religione, non è poi così difficile vedere anche più che un paragone fatto di corrispondenze e ribaltamenti, inganni e recitazioni, ruoli e (non) improvvisazioni, cupidigia e fanatismi. Fra le inutili paccottiglie vendute come oggetti sacri che sembrano quasi una frecciata contro i merchandising selvaggi delle major cinematografiche e la sceneggiatura che il falso santone e il suo entourage devono rigorosamente seguire in ogni apparizione pubblica, fra le «dottrine segrete» da rubare su chiavetta USB che in sostanza nient’altro sono che le istruzioni video per la maxitruffa religiosa con cui diventare ricchi e l’integralismo della fedele raggirata e pronta a uccidere per l’eletto, il cinema e la religione si trovano almeno per qualche istante provocatoriamente a coincidere, entrambi potenti, entrambi centrali, entrambi – in prospettiva agnostica – fondati sulla narrazione e sulla falsa convinzione. Come coincidono gli spettatori/fedeli e le vittime fragili per lutti o frustrazioni e quindi senza resistenza di fronte all’aggressività della truffa, e coincidono gli attori della commedia costruita su una commedia. Per smascherare, con finzione/cinema/fede uguale e opposta, la finzione truffaldina di una setta che, oltre a far tornare in mente la Chiesa Zero ipotizzata da Sion Sono in Love Exposure, è composta da un altro gruppo di attori che incarnano le storture e la bramosia del capitalismo, Ueda immagina una strategia degna della migliore agenzia investigativa, fatta di lunghe infiltrazioni e di piani multipli, di continui depistaggi e della creazione di un caos scientifico con cui sfruttare le debolezze altrui, che a sua volta nient’altro è che un’altra truffa, un’altra finzione, un altro e ancor più grande raggiro in cui far cadere chi inganna. Fino magari ad allargare ulteriormente il campo del visibile e a rendersi conto che il gioco è ancora più grande, che gli strati di metafinzione non sono ancora finiti, che la realtà “vera” è ancora distante e che quella che sembrava la luce nel buio, vista dalla giusta prospettiva, è solo il cono luminoso del riflettore puntato sul palcoscenico dell’ennesimo arzigogolato inganno. Ma chissà che a quel punto non ci si renda anche conto di aver vinto le proprie paure, di essere finalmente cresciuti, di essere finalmente pronti a reggere le pressioni della vita adulta senza svenimenti e tremolii. O magari no.

Marco Romagna