C’è un’idea interessante alla base di Space Dogs, film di Cineasti del Presente, che un nostro amico, usciti dalla proiezione, ha messo con queste parole: “gli autori [Elsa Kremser e Levin Peter] hanno operato nella stessa direzione di Tarr con Il cavallo di Torino: hanno re-immaginato la vita di un animale storico oltre il momento in cui hanno acquisito importanza, cercando di dare vita e valore alla parte della loro vita che non è stata raccontata, ma che è stata profondamente cambiata da quell’evento”. A dire il vero non è propriamente la stessa cosa, sia a livello esecutivo che concettuale, anche perché Tarr col suo ultimo lungometraggio ha raccontato l’apocalisse ambientandola a fine ‘800, partendo da un animale di cui non si sa nulla; qua i cani non sono Laika, Laika è morta nello spazio e la voce narrante lo mette esplicitamente in parole. I cani rappresentano la potenzialità delle Laika di oggi, i cani russi di oggi, senza casa, forti di fronte alle intemperie, che non vengono raccontati, che vengono fatti errare non nello spazio sopra di noi quanto in quello terreno. Non è un passato ricostruito e reinventato ma un presente, reale, ricontestualizzato. Mostrando le riprese dei cani è costruita una sovrastruttura documentaristica che gira attorno a Laika, includendo anche svariati filmati d’archivio, con un’indagine che parte dalle fondamenta (l’evento storico) per edificarvi un’impalcatura di naturalismo, di racconto diretto. Quest’impalcatura è l’aspetto meno emotivamente interessante del film ma è anche quello che ne costituisce lo scheletro, e senza Laika e la lunga storia di esperimenti sugli animali eseguiti dalle istituzioni di ingegneria spaziale sovietiche i cani non sarebbero “spaziali”, non assumerebbero l’espansione esistenziale che Kremser e Peter hanno voluto raccontare. Il film parte con una luce astrale che deflagra, si espande, il cosmo che include e dà il benvenuto alle forme vitali insignificanti che li abitano divenendo simulacri della sua complessità: il primo cane nello spazio come l’uomo che cerca di raccontarlo, di visualizzare ciò che ci circonda, il cielo stellato e gli astri, come i traguardi raggiunti dalla ricerca scientifica e dall’avanguardia astronomica al fine di esplorare e razionalizzare l’enormità inesorabile del tutto.
Ma il film vive assieme ai cani, protagonisti del titolo, della locandina, di buona parte delle riprese. La troupe li ha seguiti per mesi cercando di raggiungere un rapporto di fiducia e famigliarità – che è stato raggiunto ma solo negli ultimi mesi, in cui i cani hanno cominciato a comportarsi come se cinepresa e radiomicrofoni non ci fossero, così dando l’impressione di una ripresa continua e distaccata, naturale (e nel film sono presenti solo inquadrature catturate in questa fase). Girano per le strade, mangiano spazzatura, e in quella che probabilmente rimarrà la scena più disturbante di questo festival di Locarno ammazzano brutalmente un gattino. Lo azzannano senza pietà, con un’aggressività che rende spiazzante la visione, in un attimo il felino è morto e per svariati dei minuti che seguono il suo cadavere viene trascinato e sbattuto da tutte le parti: il meccanismo di sopravvivenza è giunto a un suo apice naturale e inevitabile. Il cinema rimette in moto l’idea di vita estetica, e nel farlo destruttura quella etica e rimanda alla mente e all’inconscio quella interiore, il sentimento puro: qua l’estetica diviene impulso, l’inquadratura porta le veci dell’inevitabilità. Si assiste insomma al brutale e semplice scorrere della natura, all’atto puro dell’esistenza animale. Di fronte al cosmo così complesso e alle istituzionalizzazioni razionali imposte dal linguaggio e dalla tecnologia, i cani paiono la resistenza della fauna, dell’istinto, della sopravvivenza. Sono più punk del punk, tra rave e cadaveri felini, sono la vita che gira tra la morte. Il film è corto ma sembra troppo lungo, come se i contenuti proponibili si esaurissero troppo presto, ma detto ciò le riprese ai cani potrebbero essere infinite. La macchina da presa li pedina, gira attorno a loro, si blocca sui momenti di violenza e si sente atterrata, ma continua a filmare, a seguire, a tentare una totale immedesimazione impulsiva con l’essere cane. Sono inquadrature lunghe e intense, lente e ripetitive, ma alla loro base c’è una missione il cui risultato è innegabilmente suggestivo.
Sono i discendenti di Laika, manifestazioni del suo fantasma. Space Dogs è un film che abita nella giungla, si fa forza con la legge del più forte. È straziante in un modo romantico difficile da spiegare – è come il cane dietro la duna di Goya, un quadro vago, per ognuno facciata di qualcosa di diverso. È prolisso, forse, privo di un fuoco definibile, cerca di costruire qualcosa a partire da una distruzione evidente – una società che usa come portavoce queste bestie smarrite nel degrado. E si può anche dire che in questa parziale assenza di direzione si manifesta anche un vuoto concettuale, che rende l’esperienza di visione difficilmente decodificabile; non nel senso di film misterioso, che evoca un fuori campo d’impatto a rendere vive e complesse l’azione e la storia, quanto nel senso di difficile viaggio emotivo nella matassa di ciò che è filmato. Space Dogs non richiede agli spettatori una riflessione né ci propina una documentazione o comunque con un approccio di tipo istruttivo, è quello che si definirebbe (termine abusato…) un film “immersivo”, anche se in modo totalmente inatteso. Dopo un po’, sentiamo i cani che girano per questa Mosca desolante come se andassero davvero anche loro tra i pianeti e i meteoriti, e noi con loro, a scoprire la loro vita come alieni che regnano sul territorio di un pianeta familiare. Space Dogs non è, dunque, il grande racconto epico che le potenzialità del cinema possono dare alla figura di Laika, per quanto l’inizio e la sinossi lo possano suggerire; è più un sussurro, drammatico quanto tenero, di una possibilità di racconto o di testimonianza, una vita lontana che sembra divenire ancora più distante…
Nicola Settis